Ecco la Primavera, che’l cor fa rallegrare

Cari Compagni di Cerca,

ebbene sì, anche se in qualche parte d’Italia non sembra proprio, è arrivata Primavera. Le parole del titolo sono tratte da un Madrigale trecentesco di Francesco Landino, il ‘Cieco degli Organi‘, che pur doveva avvertire in qualche modo il richiamo alla vita di questa stagione.

Queste le parole che il massimo Maestro dell’Ars Novaha posto in musica, e che vorrei auspicio per questa stagione iniziata in sordina, seppur con Luna piena ed al perigeo:

Ecco la primavera

che ‘l cor fa rallegrare

Temp’è da ‘nnamorare

e star con lieta cera.

L’erbe con gran frescheza

e fiori copron i prati

e gli alberi adornati

in simil manera.

No’ vegiam l’aria e ‘l tempo

che pur chiama allegrezza

in questo vago tempo

ogni cosa ha vaghezza.

Potrà sembrare banale, a maggior ragione allora che la civiltà consentiva di vivere più a contatto con la Natura, eppure il tema centrale di questi versi è il rinnovamento che la Natura porta con sé: e non è questo, appunto, che pochi appassionati ogni anno fanno per questo mondo sbagliato? Accendono un fuoco (Igne Natura Renovatur Integra) ed attendono, sereni e felici…

Ma molti sono stati i musicied i poeti che hanno cantato la Primavera: Joaquim du Bellay, se non sbaglio,  è l’autore di questi versi altalenanti, scritti secondo le nuove regole da lui introdotte, ed il talento geniale di Claude Le Jeune ha trasformato il loro zoppicare in un artificio ritmico gradevole e brillante:

Revecy venir du Printans.
L’amoureuz’ et belle saizon.

Le courant des eaus recherchant,
Le canal d’été s’éclaircît:
Et lamer calme de ces flots,
Amolit le triste courrous:
Le Canard s’égay’ se plonjant,
Et se lave coint dedans l’eau
Et la grû’ qui fourche son voi,
Retraverse l’air et s’en va.

Revecy venir du Printans.
L’amoureuz’ et belle saizon.

Le Soleil éclaire luizant,
D’une plus sereine clairté:
Du nuage l’ombre s’enfuit,
Qui se ioû’ et court et noircît
Et foretz et champs et coutaus,
Le labeur humain reverdît,
Et la prê’ decouvre ses fleurs.

Revecy venir du Printans.
L’amoureuz’ et belle saizon.

De Venus le filz cupidon,
L’univers semant de ses trais,
De sa flamme va réchaufér.
Animaus, qui volet en l’air,
Animaus, qui rampet au chams
Animaus, qui naget auz eaus.
Ce qui mesmement ne sent pas,
Amoureux se fond de plaizir.

Revecy venir du Printans.
L’amoureuz’ et belle saizon.

Rion aussi nous: et cherchon
Les ébas et ieus du Printans
Toute chose rit de plaizir:
Sélebron la gaye saizon,

Revecy venir du Printans.
L’amoureuz’ et belle saizon.

Al buon cuore dei francesisti lascio il piacere di una bella traduzione, a me piacciono i ‘Lavori dell’uomo che rinverdiscono’ ad un certo punto, ma gli spunti sono molteplici… e pensare che voleva essere solo un post augurale!

A tutti l’augurio di una Primavera di speranza

Chemyst

 

 

Media vita in morte sumus…

Cari Amici,

quando avvenne il terremoto dell’Aquila, i primi a sincerarsi della mia buona salute (ero sufficientemente lontano…) sono stati i miei cari Compagni di Cerca. L’evento, terribile, fu causa di profonde riflessioni sulla caduca fragilità del nostro vivere. Ci tornarono in mente le apocalittiche parole di Canseliet, nella sua Prefazione alle Dimore Filosofali, parole che suonano tremendamente allarmanti ancora, dopo la tragedia Giapponese. L’allarme anzi si carica d’angoscia, alla notizia che lo Tsunami asiatico abbia spostato l’asse terrestre di ‘ben’ 10 centimetri… Cosa accadrebbe, duunque, nel caso il ‘Bouleversement‘ di cui parla Canseliet (che, lo ricordo, presuppone l’INVERSIONE dell’asse terrestre) non fosse soltanto una metafora alchemica? Se ‘soli’ 10 cm sono stati in grado di mettere in ginocchio il paese più attrezzato e sicuro per i terremoti nel mondo, cosa resterebbe della nostra civiltà se l’asse percorresse le centinaia di migliaia di chilometri che formano l’emicirconferenza del nostro globo terracqueo?

Il tema – ancorchè terrificante – è nondimeno appassionante: ne accennai tempo fa, all’inizio di questo Blog qui e, in una inesauribile fonte di notizie ad ogni rilettura, anche Captain Nemo qui. Esso porta  ad interrogarsi sui grandi perchè della vita, cosa peraltro che ogni Cercatore serio fa, di tanto in tanto, con sereno distacco, accanto al fuoco.

Probabilmente, la tecnologia odierna ha acuito il nostro (ahimè erroneo) senso d’immortalità, e per di più di immortalità terrena: che è poi anche uno degli splendidi specchi per allodole ( e che specchio!) posto davanti ai nostri occhi da Dama Alchimia, e che tanta avidità (e pari incredulità!) ha da sempre scatenato nell’uomo.

Non è sempre stato così: una concezione ben diversa, forse più reale, era nei pensieri dei nostri antenati. Ancora una volta, testimone duratura di ciò è stata ed è la Musica. Ecco le parole di un inno gregoriano dalla storia molto particolare e controversa, e per questo piena di fascino:

Media vita in morte sumus
Quem quærimus adjutorem nisi te, Domine?
Qui pro peccatis nostris juste irasceris
Sancte Deus, Sancte fortis, Sancte et misericors Salvator,
Amaræ morti ne tradas nos.

In Te speraverunt Patres nostri,
speraverunt et liberasti eos.
Ad Te clamaverunt Patres nostri,
clamaverunt et non sunt confusi.

Sancte Deus, Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto:
sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculorum. Amen.

Il testo è pieno di drammaticità, con quei vocativi finali, e di sentita contrizione, con la certezza dell’Ira di Dio (“pro peccatis nostris juste irasceris“), laddove oggi tendiamo a negare persino un’intelligenza nel Creato… Per carità, non voglio per questo dire che il sisma nipponico sia dovuto all’Ira di Dio, soltanto che, nel Medio Evo, si aveva quotidiana dimestichezza con carestie, cataclismi, guerre, pestilenze et alia che l’uomo d’allora aveva ben chiara la propria fragilità.

Il Canto, pieno di fascino, e che termina con una cadenza sospesa, è un Canto Ambrosiano su testo attribuito a Nokter Balbulus, X secolo, Monaco di San Gallo (Svizzera), ma sulla cui attribuzione Gustav Reese solleva qualche dubbio.  Qui di fianco è raffigurato in una vetrata non in veste di compositore o biografoo (gli è attribuita anche una biografia di Carlo Magno), bensì di esorcista.

Sull’antifona, abbiamo una più che esauriente trattazione da parte di Giovanni Vianini qui:

Nell’intenzione di Nokter Balbulus o di chi per lui, è un’Antifona Ambrosiana del Quarto Sabato di Quaresima, da cantarsi alle lodi. Tuttavia, Jules Combarieu, nel suo ‘La Musica e la Magia‘ ci racconta che tale inno venne bandito con bolla papale per l’uso improprio che se ne faceva nel Medio Evo: pare infatti che, in quei tempi privi d’anagrafe, venisse utilizzato quasi come un mortifero ‘mantra‘, un incantesimo, commissionando ad un ignaro sacerdote una messa da morto durante la quale venisse cantata quest’antifona, con il dedicatario ancora in vita…

L’inno, tuttavia, come avete potuto ascoltare, è di singolare bellezza, ed ha ispirato, in forma parodica o con lo stile del Cantus Firmus, diversi compositori. Fra essi, per il contenuto spirituale del brano, non potevano mancare due fra i più grandi Fiamminghi, Nicolas Gombert e Roland de Lassus; il primo ha anche composto una Missa Media Vita. Questa è la sua versione polifonica del testo ambrosiano:

Nicolas Gombert è un compositore fiammingo, vissuto fra il 1495 ed il 1560; Wikipedia lo dà verosimilmente allievo di Josquin Desprez fra il 1515 e il 1521, mentre a partire dal 1526 fu cantore e anche compositore  presso la cappella reale di Carlo V. A partire dal 1529 fu Magister puerorum, cioè insegnante delle voci bianche del coro reale; con questo coro ebbe il modo di cantare in tutti i possedimenti dell’impero. Non ricoprì mai la posizione di maestro di cappella (titolo che venne affidato invece poco dopo a Thomas Crecquillon), ma fu compositore e produsse molte composizioni celebrative degli eventi più importanti del regno di Carlo V. A partire dal 1540 non vi sono più testimonianze della sua attività corale: stando ad una testimonianza del matematico Girolamo Cardano, Gombert fu accusato di violenza sessuale nei confronti di un ragazzo e fu condannato ai lavori forzati nelle galee. Ricevette la grazia probabilmente nel 1547, anno in cui scrisse una lettera al Gran Capitano di Carlo V, Ferrante I Gonzaga; secondo la testimonianza del Cardano, fu scrivendo il suo Magnificat e inviandolo all’imperatore (il quale ne restò profondamente commosso) che riuscì a ottenere la grazia.

Non so se l’accusa fosse fondata, fatto sta che ascoltando le sue composizioni si avverte un profondo respiro mistico ed una grandissima padronanza dei mezzicompositivi, oltre ad una conoscenza vasta del repertorio musicale dei suoi contemporanei. La sua versione del Media Vita è basata su piani sonori sovrapposti, con effetti di grande drammaticità e di potente suggestione: l’inizio con il tema che parte dalle voci gravi e si eleva dapprima faticosamente poi via via sempre più in alto descrive con efficacia un’anima strappata alla terra che sale in Cielo.

Perdonate questa mia digressione (“ma non dovevamo perlare d’Alchimia?” già starà pensando qualcuno…), tuttavia ritengo di non essere del tutto ‘off topic‘ ragionando di caducità della vita umana, quella caducità che spinge da sempre l’uomo a trovarvi rimedio; non è off topic neppure porsi interrogativi sul perchè tanti Adepti l’hanno fatto, nei loro scritti: Fulcanelli all’ultimo momento ha deciso di non divulgare il suo Finis Gloriae Mundi (ovviamente quello ‘in vendita’ è una bufala), anche se Canseliet e Laplace ne hanno divulgato dei frammenti, e lo stesso Canseliet, nella citata prefazione alle Dimore, ed anche passim nei suoi due libri L’Alchimia invita a riflettere ed induce il lettore a prendere dimestichezza con la divergenza fra le aspirazioni umane ed il cammino inesorabile nella propria coerenza di Madre Natura, le cui meravigliose manifestazioni possono assumere ai nostri occhi anche aspetti di inaudita violenza  ed indifferente crudeltà.

Una spiegazione alternativa, ancorché neppure di un po’ più consolante, l’abbiamo grazie al beffardo ma appassionato intervento di Paolo Lucarelli ai Colloque Canseliet, la cui rilettura è, al pari di qualsiasi autentico testo ermetico (perchè è un testo ermetico anch’esso), fonte di continue sorprese e scoperte, ma nel quale, nel suo livello palese di lettura, egli parla di Dio in vari modi, o meglio, parla di Dio e del Demiurgo (e non sono certo affatto che secondo lui fossero la medesima persona), ed a proposito di quest’ultimo lo delinea come responsabile della corruzione del nostro universo a causa di errori grossolani, a loro volta fonte delle nostre sofferenze ed imperfezioni.

Anche lì, mentre ironizza sul suo Francese, o censura illustri relatori con battute al… vetriolo, o sorride, o si commuove, l’Ultimo Adepto ci indica una Via di speranza, quella che pochi folli, fra breve, torneranno tutti insieme a coltivare, per il nostro bene, in un modo che mi è ancora oscuro ma che percepisco come vero.

Un saluto dal Bosco.

Chemyst