Rorate Caeli desuper

Cari cercatori,

nel continuare, a dispetto dei tempi, ed anche con qualche giorno di ritardo, la nostra tradizione di formulare, in questi giorni di rinnovamento della luce, gli auguri a tutti i cercatori di buon cuore, ci sovviene, per averci di recente meditato su, un passo di Canseliet in “Due Luoghi Alchemici” a proposito della rugiada.

In quel passo Canseliet infatti cita un passo di Isaia, che si canta durante l’Avvento e che precisa di quale rugiada si tratti. Eccolo: “… Lo studioso conosce l’autorità della Tavola di Smeraldo che, secondo padre Athanasio Kircher, racchiude il segreto della medicina universale. Certissimus est, afferma al superlativo l’eminente Gesuita. Molti artisti hanno dato alla rugiada – Rhosis -Forza – più esattamente al sale che se ne trae, il nome di smeraldo dei filosofi. Questo è verde come la gemma di gran valore, ed è per lo stesso motivo di somiglianza sia nel colore sia nella struttura vetrosa, che ha ricevuto anche l’ Appellativo di vitriolo comunemente dato dagli spagiristi al solfato di ferro. Sulla base dell’esperienza positiva, siamo in grado di assicurare che lo spirito universale verde è la materia nascente, allo stato puro, tangibile e facilmente ponderabile, che è quell’oro immaturo spirituale e cristico di cui parlano tutti i veri alchimisti: “Cieli, inviate dall’alto la vostra rugiada: e che le nubi facciano scendere il giusto come pioggia; che la terra sia aperta, e che produca il Salvatore; e che nello stesso tempo nasca la giustizia. Io sono il Signore che l’ha creato“ (Isaia, 45,8).

In realtà, ci sono varie revisioni di questo testo, così come per molti passi biblici, secondo il capriccio episcopale del tempo.

Canseliet non riporta qui il testo latino anche se ce ne fornisce bene il senso, ma eccolo qui:

“Rorate, cæli, desuper, et nubes pluant justum ;

aperiatur terra, et germinet Salvatorem, et justitia oriatur simul :

ego Dominus creavi eum”

Nella liturgia dell’avvento si aggiunge un versetto che suona interessante:

“ Caeli enárrant glóriam Dei: et ópera mánuum eius annúntiat firmaméntum”.

La sua traduzione è: “I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani“. Il firmamento, che etimologicamente è qualcosa di fermo (le cosiddette “stelle fisse“), viene usato talvolta come metafora in Alchimia ed è qui descritto come un segno dell’attività divina, forse proprio per la presenza delle stelle. Il primo verso (Rorate etc.) compare poi anche in una preghiera del Liber Usualis.

Tornando al versetto di Isaia, il secondo rigo recita testualmente “et nubes pluant iustum”, tradotto sempre con “giustizia“, anche nella Bibbia di Re Giacomo. Tuttavia, questo termine mi suona come se quella rugiada che piove dei cieli debba essere in quantità giusta (ni mas, ni menos, come nella “pesata poco comune“ del dipinto di Juan de Valdés Lèal alla Santa Caridad di Siviglia).

Canseliet poi, in nota, ci suggerisce di tornare indietro di 43 pagine, all’epigrafe sopra la porta magica:

Secondo l’allievo di Fulcanelli tale epigrafe “precisa lo scopo fisico“ (ovvero l’apertura della terra) “e la conseguenza sociale“ (ovvero la salute del popolo). Ecco, qui magari avrei tradotto “salvezza“.

In musica, nel periodo che più si appassiona e nel quale compositori illuminati hanno tentato di preservare “l’insegnamento iniziatico che avrebbe dovuto conservare“ il testo sacro, troppo spesso e anche di recente rimaneggiato, siamo affezionati al Rorate Caeli desuper di Francisco Guerrero, degno allievo di Cristobal de Morales, a sua volta maestro di scuola franco fiamminga e incluso nel secondo elenco di musici nel nuovo prologo al quarto libro di Pantagruele da parte dell’iniziato Rabelais.

Non sfuggirà ad alcuno, ascoltando il brano ed osservando lo scorrimento delle note, l’andamento ‘dalla terra al cielo’ della melodia, peraltro presente anche nella fonte gregoriana.

’.

Nel mottetto di Guerrero il testo originario è integrato dalle parole del Salmo 85:8 e di Abacuc 2:3:

“Ostende nobis Domine misericordiam tuam et salutare tuum da nobis, veni, Domine, et noli tardare”

Sono inoltre osservate alcune regole del descrittivismo del tempo: le note più acute sono sulle parole ‘desuper’, ‘misericordiam’, ‘salutare’ e, a sottolineare sia la sede dell’invocazione sia la sua drammaticità, la parola ‘veni’; la nota più grave è ovviamente sulla parola ‘terra’.

E’ con questa bella esecuzione, intrisa di misticismo, che auguriamo a tutti un prospero 2023, con “terra grassa e abbondanza di rugiada“.

Chemyst

Il solenne ‘Old Hundredth’, il Salterio Ginevrino ed un canto di parrocchia

Carissimi amici,

in realtà non saprei se questo post, pieno com’è in prevalenza di considerazioni storico – musicali, trovi qui la sua collocazione corretta. Tuttavia, quando lessi l’invocazione sottesa alla melodia, non ho potuto fare a meno di pensare a chi si prodiga, nelle notti giuste, ad elevare al Padre delle Luci la sua preghiera, fatta di fuoco, di dedizione e di abbandono.

Sono però andato a vedere quella frase, sul testo di Gustav Reese, perché avevo riconosciuto immediatamente la melodia: la sua storia vale davvero la pena di essere raccontata.

Il capitolo del Reese [La Musica nel Rinascimento] che stavo leggendo riguardava il Salterio di Ginevra e la nascita, ai fatti, di un nuovo filone musicale legato al protestantesimo, filone costituito di musiche prima monodiche, volutamente a scansione sillabica perché destinate al ‘canto del popolo’ e poi, nonostante l’opposizione dello stesso Lutero, sempre più frequentemente polifoniche.

Accennammo già in passato che questo Salterio (in pratica, una raccolta di Salmi) era in lingua ‘volgare’ e non in Latino, e che Clement Marot stesso, su incarico di Francesco I, li tradusse in Francese. Perché Francesco I fece questo non è chiaro: probabilmente non era affatto intenzionato a sposare lo scisma protestante, forse era soltanto una mossa politica da includere nella dinastica ‘dialettica‘ di potere  fra i Valois ed i De Guise/Lorena: fatto sta che letteralmente gettò Marot nelle braccia del movimento protestante, di fatto facendolo scomunicare e condizionando fortemente la sua vita successiva.

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La veste musicale dei Salmi polifonici in francese vide all’opera insigni musicisti dell’epoca: fra essi spicca il nome di Clement Janequin accanto ad altri di pur grande rilievo come Jean Caulery, Louis Bourgeois, il trattatista Jambe de Fer, Waelrant, ed altri.

Nel nostro percorso di ricerca abbiamo già incontrato i nomi di Janequin e di Caulery, quest’ultimo fu l’autore della musica della Salutation Angelique, quell’Ave Maria tradotta da Marot in modo così particolare, tanto quanto particolare fu la disposizione testuale sulla musica operata dallo stesso Caulery.

Il canto in questione è stato elaborato polifonicamente da Luois Bourgeois, il compositore più rappresentato nel Salterio, ma la melodia non è sua ed è probabilmente preesistente e di origine – al pari di molte altre  – popolare. Bourgeois la tratta inserendola nella voce di tenore: in questo modo forse voleva non metterla in evidenza, anche se questa era comunque una pratica musicale comune. Comunque, questa melodia ebbe un successo straordinario che è perdurato fino ai nostri giorni e, con forme solo lievemente diverse, è entrata nelle celebrazioni solenni del Regno Unito (noto come ‘The Old Hundred‘, nella versione di Sir Vaughan – Williams, accompagna l’ingresso solenne a Westminister della Regina).

 Essa  è anche pratica comune nelle occasioni liturgiche domenicali delle nostre Parrocchie con il titolo di ‘Noi canteremo Gloria a Te’, nella elaborazione musicale di un tal Testi.

Ho cercato una esecuzione dignitosa, fra le tante disponibili in rete: la differenza si sente comunque. La confusione, poi, regna sovrana: nel video qui sopra il brano viene indicato come ‘Noi canteremo Gloria a Te‘ e poi, fra parentesi,  L. Bourgeois: “All people that on earth do dwell“, che è l’incipit del testo elaborato da Vaughan Williams, dato che Bourgeois, come detto, ha armonizzato un testo francese.

A questo punto mi sia consentito un po’ di sarcasmo verso quella classe clericale che continua a gestire in modo dissennato la musica liturgica in Italia: mi chiedo quanti preti (di qualsiasi colore abbiano la tonaca, nera, porpora o viola) sappiano mai che ‘Noi canteremo Gloria a Te‘ è un corale del Salterio Ginevrino, manifesto sonoro del nascente Protestantesimo,  e ‘Signore Dolce Volto‘, uno degli ‘hit‘ liturgici della Settimana Santa, beniamino delle anziane recitatrici di rosari, un corale con il testo scritto da Lutero… e si permettono poi di bandire la polifonia scritta da Autori giganteschi a favore di cacofonie ritmiche per di più approssimative con la scusa (tutta italiana, peraltro) di una (a conti fatti fallimentare, se non definitivamente fallita) “partecipazione del popolo” al canto, travisando (ad arte?) le direttive del Concilio Vaticano II.

Sed de hoc satis.

Naturalmente, sia nell’Old Hundredth, sia nella più modesta versione ‘neocattolica’, il testo originario non è sopravvissuto. Ma veniamo alle parole, che giustificano forse il perché questo canto giunge su un blog di Alchimia. Guardate voi stessi:

or-sus

La melodia è quella, e la traduzione italiana fedele: non è stupefacente il suo senso, almeno se a leggerla siamo noi alchimisti operativi?

Il testo appartiene al Salmo 134 (133): così è nella King James’ Bible:

Behold, bless ye the LORD,

all [ye] servants of the LORD,

which by night stand

in the house of the LORD.

Questo il testo della ‘Vulgata‘ (al n. 133):

Ecce benedicite Domino omnes servi Domini qui statis in domo Domini
in noctibus levate manus vestras ad sanctum et benedicite Domino
benedicat tibi Dominus ex Sion factor caeli et terrae

Il Salmo è un cosiddetto ‘Canto di Ascesa‘ che veniva recitato/cantato una volta che il pellegrino aveva salito i gradini del tempio di Sion ed era giunto al cospetto del Signore.

Anche senza valenze alchemiche, la suggestione simbolica è potente e patente: l’ascesa si trasforma in ascesi, la salita fisica di una scalinata nel raggiungimento di un luogo elevato dell’anima.

Ma perché la notte?

Certo, ricordiamo tutti la bellezza della preghiera d’amore di Juan de la Cruz, di cui parlammo qui e le possibili implicazioni dei suoi versi appassionati. Ma qui, per chi tutte le notti ‘buone‘ accanto al forno e tramite esso recita la sua preghiera ardente (in tutti i sensi), sembra proprio che il Salmista si rivolga a… noi. Ed ecco che, come ebbe a dire Lucarelli alla Sorbona, ci appare spaventosamente chiara la portata della preghiera elevata per tramite del fuoco:

Jean Lapiace mi diceva una volta, e lo ricordo ancora, che se un alchimista fosse completamente cosciente di ciò che va a fare, non oserebbe mai compiere la più piccola operazione. Ci vuole un po’ d’incoscienza per avere il coraggio di avvicinarsi al forno e dire a Dio: “Vieni a casa mia”. Ci vuole molto coraggio“.

A tradurre questo Salmo non è stato Clement Marot, ma Theodore de Beze. Come il primo, però, egli sceglie nel tradurre: sceglie il testo della King James’ Bible e non il Latino della Vulgata [1]. Polemica religiosa? Indicazione politica? Forse. A noi però piace pensare che sia  un ulteriore tassello di quel mosaico sottile che passa per la Salutation Angelique cara a Canseliet musicata da Caulery e per la Pere Eternel di Clemens non Papa, sempre su testo tradotto da Marot. E mi tengo buona per le mie notti primaverili questo canto di preghiera e di buon auspicio per le attese ‘generazioni’ future.

Buen Camino

Chemyst

[1] La biografia di De Beze, successore di Calvino, è piuttosto interessante: una sintesi è qui

Fra abbandono e supplica

Cari Compagni e Fratelli di Cerca,

come ho spesso ripetuto, devo ringraziare pochi amici per aver riportato la dimensione del Sacro vicino a me, riportando me vicino alle orme diafane di Dama Alchimia. Non mi stanco di riflettere su questo, e lo faccio qui e su altri luoghi telematici (come La Fiammella) e proprio nell’ambito di quella discussione sono affiorati due ripettabilissimi e motivati punti di vista differenti, da parte di due Cercatori veri ed appassionati, nonchè Operativi, quali Captain Nemo e Frà Cercone. Con l’indulgenza necessaria a chi deve semplificare, i due punti di vista rappresentati sono fra un ruolo attivo dell’Operatore con il suo modo specialissimo di pregare ed un ruolo passivo, di abbandono alla benevolenza della Dama o se volete dell’animatore delle manifestazioni tutte, lo Spirito Universale.

Credo che finalmente, con questa discussione, una riflessione davvero utile si svilupperà in quel luogo, e non mancherò di portarvi il mio personale punto di vista. Oggi qui, però, vorrei magari limitarmi a fornire del materiale (musicale, secondo il mio costume e le mie propensioni) per alimentare con cognizione di causa le riflessioni di tutti.

Tutto questo senza ‘premeditazione‘ alcuna, anzi: sto scrivendo di getto perchè questa mattina ho ascoltato ‘per caso‘ un bellissimo brano di Jacques Arcadelt, autore fiammingo fra i miei prediletti (nonchè fra quelli di Francois Rabelais e Jean de Guise, ma questa è un’altra, bellissima, storia), intitolato ‘O Pulcherrima Mulierum‘:


O pulcherrima mulierum,                         6:1 Quo abiit dilectus tuss, o pulcherrima mulierum?…
vulnerasti cor meum,                                 4:9 Vulnerasti cor meum,
soror mea, sponsa…
Descende in hortum meum.                     6:11 Descendi in hortum nucum…
Veni, dilecta mea.                                         4:16 Veniat dilectus meus in hortum suum…
Tota pulchra es, amica mea,                     4:7 Tota pulchra es, amica mea,
et macula non est in te.                                       et macula non est in te.
Veni et coronaberis.                                    4:8 Veni de Libano, sponsa mea: veni de Libano,

veni,  coronaberis…
Sancta Maria, ora pro nobis.                                n/a

come ci ricorda con il suo ultimo post proprio Captain Nemo, il Cantico dei Cantici di Salomone è spesso visto come metafora alchemica: qui sopra ho riportato invece il testo con a fronte (per quanto lo consenta la piattaforma)  i passi da cui il compositore li ha estratti e assemblati in parafrasi.

E’ un canto d’amore, e l’amore è il tema di tutto il Cantico. E’ anche una preghiera, una supplica reiterata alla ‘Pulcherrima mulierum’ (che per i Cristiani è personificata nella Madonna, qui già immacolata (‘et macula non est in te‘) e quindi non più Vergine Nera, non più ‘Nigra … sed formosa‘, bensì già, come la madre dei Gemelli Luminosi Apollo e Diana, dealbata.

Trovo inoltre interessante, e molto, il versetto ‘Descende in hortum meum’, e non soltanto per l’attinenza alla discussione fra abbandono e supplica, bensì perché è l’alterazione del versetto originario ‘Descendi in hortum nucum’;  ecco la traduzione settecentesca di Antonio Martini nel suo ‘Vecchio Testamento secondo la Volgata tradotto in Lingua Italiana‘, Firenze, 1787:

cantmartini

Ecco riapparire stavolta dei ‘Poma Convallium‘, accanto ai Gigli… Ma c’è una Vigna, ed il vignaiolo è, simbolicamente, per la Cristianità, Nostro Signore. Che nella Vulgata (ma la King James’ Bible è concorde) parla in prima persona e scende nell’orto, laddove il buon Arcadelt  prega, a dir il vero con un imperativo ‘descende‘, la nostra ‘Pulcherrima mulierum‘…

Soprattutto, però, trovo interessante che in questo caso il compositore scelga, fra le rime del Cantico dei Cantici, quelle che vuole musicare, non limitandosi a prendere semplicemente un versetto, o un testo integralmente, oppure (penso ad esempio a Crecquillon) modificandolo solo in qualche punto. Dunque un atto preciso e deliberato che pone insieme versetti provenienti da punti diversi e che a me da’ l’impressione che voglia puntare un dito per indicare…

Se non che, un altro fiammingo che è vissuto a lungo in Italia, sebbene non si conoscano i suoi studi con precisione, ma per il quali si ipotizza sia stato allievo di Adrian Willaert (curioso, anche lui è nell’elenco dei musicisti citati nel sogno di Priapo da Rabelais..), Cipriano de Rore  (nome molto alchemico, no?) riprende questo tema a noi caro in questa sua bellissima e sontuosa Descendi in horum meum

Lo stesso testo è stato musicato anche da Dunstable (inglese del XV secolo), mentre un Veni in hortum meum ha come autori Orlando di Lasso e Jacob Praetorius.

Insomma, ce n’è per tutti i gusti e come si vede, sebbene un comune profondo senso di misticismo promani da entrambe le composizioni, resta aperto, quasi equamente condiviso, l’interrogativo fra l’abbandono e la supplica.

Sempre che non occorrano entrambi… 😉

Saluti cari

Chemyst

Sicut Cervus: Palestrina esoterico?

Cari Compagni di Cerca,

quelle che seguono non sono parole mie, ma probabilmente di un religioso. Sembrano scritte invece da un sincero Cercatore, e farebbero la felicità di Severine Batfroi

“Scritto da Giovanni Pierluigi da Palestrina, Sicut Cervus è da molti considerato l’ esempio più significativo di arte corale religiosa del Rinascimento. Il testo latino è tratto dal Salmo 42:

Come la cerva anela ai corsi d’ acqua,

così l’ anima mia anela a te, o Dio”.

Per i cattolici del XVI secolo le parole del Salmo evocavano due momenti di estrema importanza liturgica. Il primo si svolgeva durante la veglia pasquale, attraverso la liturgia del fuoco e la benedizione dell’ acqua: il buio penitenziale della Quaresima terminava con l’ accensione del fuoco nuovo, il canto dell’ Exultet, le litanie dei Santi e il canto dell’ Alleluia. Durante questa celebrazione i nuovi convertiti alla fede venivano esaminati e ricevevano il Santo Battesimo, e il giorno di Pasqua la loro prima Comunione. Sicut cervus veniva cantato durante la processione al fonte battesimale. In questo contesto, le parole del Salmo risuonavano come le acque sacramentali del Battesimo, e come l’ acqua viva dell’ Eucaristia.

Lo stesso canto veniva utilizzato anche in un’ altra liturgia: la Messa da Requiem [omissis]. Nella solenne liturgia di un funerale, nell’anniversario di una morte, o durante la commemorazione di tutti i defunti, il canto Sicut Cervus risuonava di nostalgia, di speranza e aspirazione: l’anima desidera ardentemente tornare alla sua vera dimora al cospetto di Dio.

Oggi il senso generale della nostalgia dell’anima all’unione con Dio [omissis] rende Sicut Cervus una scelta eccellente per il momento della Comunione”.

(http://tavernolaincanto.altervista.org/blog/2011/04/sicut-cervus-palestrina/)

Alle parole Sicut Cervus, per un vecchio frequentatore della oggi piuttosto disprezzata (paradossalmente in ambito clericale) polifoinia sacra, si associa inderogabilmente il nome di Giovanni Pietro D’Aloisio detto ‘Il Palestrina‘, che ne ha utilizzato il testo per comporre uno dei capolavori della musica sacra d’ogni tempo:

Subito evidente, se seguiamo la musica raffigurata, è la resa (musicale e grafica) di Palestrina della parola ‘aquarum‘ con dei melismi che ricordano le onde; meno evidente all’analisi formale, ma con l’aiuto dell’ascolto più chiaro, è il perchè Palestrina usi una sequenza ascendente sulla parola desiderat: all’orecchio infatti la ‘t‘ si apprezza meno, ed ecco che l’anima cerca qualcosa ‘de sidera‘, dagli astri, insomma dal Cielo, ed andando la melodia verso l’alto, ad esso tende. A noi poveri folli, inoltre, appare quasi ovvio che le ‘acque‘ cui tende il ‘cervus‘ sono quelle superiori, al di là dei ‘sidera‘ di cui sopra…  e la melodia del Superius (osservatela, mentre scorre la musica) quando si canta la parola ‘aquarum‘ si raggiunge una nota più alta (il do) rispetto al ‘si’  di quando si parla di ‘sidera‘: conosceva bene dunque il Palestrina la cosmologia ermetica! Di qui discende un’ulteriore considerazione cosmologica che lascio ai più attenti ed acuti Cercatori, ma che non dirò: posso solo suggerire che a sua conferma è opportuno rileggere Genesi magari consultando le fonti ebraiche e, perchè no, quanto raccontava, scherzando a modo suo, Paolo Lucarelli nel suo Discorso alla Sorbona al convegno su Canseliet.

Curiosa peraltro è la traduzione di Cervus con ‘Cerva‘: a sottolinearne forse la matrice mercuriale e quindi passiva, femminile, che peraltro mal si sposa con la concezione di anima legata allo zolfo, principio di natura maschile. Un dubbio analogo, che crediamo egli pose come spunto di riflessione, è espresso proprio da Canseliet in Due Luoghi Alchemici nel capitolo sul Crevo sottomesso. Un amico barbuto, ora, so che ridacchia dietro la pipa e pensa: “E’ l’eterno scambio di cappelli fra zolfo e mercurio“.

Sempre Eugene Canseliet,  e sempre in ‘Due Luoghi Alchemici’, nel commentare il cassettone del Plessis-Bourree (anzi  nella didascalia dell’immagine) cita però il testo della Vulgata, dove questo Salmo è numerato al XLI:

1 in finem in intellectum filiis Core

2 quemadmodum desiderat cervus ad fontes aquarum ita desiderat anima mea ad te Deus

3 sitivit anima mea ad Deum *fortem; vivum quando veniam et parebo ante faciem Dei

Per definitiva completezza, citiamo allora anche la King James Version, di cui c’intriga particolarmente la dedica:

1 To the chief Musician, Maschil, for the sons of Korah.

As the hart panteth after the water brooks, so panteth my soul after thee, O God.

2 My soul thirsteth for God, for the living God: when shall I come and appear before God?

Palestrina dunque potrebbe anche lui aver ‘passato’, più o meno consapevolmente, messaggi di significato alchemico nelle sue composizioni vocali, cosa che chi ci segue sa che individuammo con grande frequenza negli autori Franco-Fiamminghi. Tuttavia, vi sono anche dati biografici del compositore che lo legano a questa scuola. Tanto per cominciare, i Cantori delle varie cappelle vaticane ed i loro Maestri di Cappella erano tradizionalmente Fiamminghi. Lo stesso Papa Leone X è stato cantore, e quando salì al Soglio Pontificio contribuì con scelte sagaci a mantenere ed accrescere il prestigio e la tradizione delle cappelle Papali. Dal canto suo, anche Palestrina ebbe verosimilmente come insegnanti prima Rubin Malapert (o Robin Mallapert, ma il primo nome mi suona più ‘cabalistico’ 😉 ) e poi Firmin Lebel; eccone qualche nota biografica da Wikipedia, da Treccani.it  e con mie integrazioni tratte dal Reese:

Le Bel , Firmin. – Musicista (Noyon inizî sec. 16º – Roma 1573). A Roma fu cantore e maestro di cappella a S. Maria Maggiore e a S. Luigi de’ Francesi, e cantore della Sistina; compositore di musica sacra. Fu maestro di G. P. da Palestrina. (fonte: Treccani.it). Sottolineo, a futura memoria, che Noyon è vicino a Saint Quentin, importante centro di produzione musicale fiammingo. Lì visse i suoi ultimi anni ed è sepolto il grande  Loyset Compére.

Mallapert (o Malapert), Rubin. – Musicista francese (sec. 16º); attivo a Roma, quale maestro di cappella a S. Maria Maggiore, a S. Luigi dei Francesi, a S. Pietro, a S. Giovanni in Laterano (1538-61).

In quegli stessi anni era attivo a Roma anche Jehan l’Heritier (letteralmente Giovanni l’Erede, nel senso di erede di Josquin Desprez…) di cui eseguimmo un bellissimo Nigra sum sul cui tema il Palestrina ha composto una splendida Messa nello stile della parafrasi. Inoltre, a Roma in quel periodo c’era  anche Jakob Arcadelt, di ci parlammo qui, e che potrebbe in qualche modo aver contribuito all’istruzione (a questo punto tutta fiamminga: l’altro nome che secondo qualcuno potrebbe aggiungersi ai ‘Maestri’ di Palestrina è il francese Roussel, anch’egli dotato di nome alquanto suggestivo: Rous(eé) Sel = Sale di Rugiada).  Comunque, Arcadelt Nel 1539 è a Roma come membro della Cappella Giulia. Nello stesso anno pubblica quattro libri di madrigali. Ristampati molte volte essi gli daranno fama europea. Poco dopo (nel 1540) viene nominato “magister puerorum” (direttore del coro di fanciulli) e successivamente maestro del coro della Cappella Sistina. Spesso la chiarezza dello stile compositivo di Arcadelt e di Palestrina sono state accostate, e sembra ragionevole pensare ad un contatto e ad una reciproca influenza dei due compositori.

Per chiudere il cerchio, aggiungerò che, come detto dal religioso citato in apertura, il ‘Sicut Cervus‘ compare in alcune versioni antiche del Requiem: questo insieme di composizioni ha avuto per lungo tempo una struttura variabile, e quasi ogni compositore antico ne ha prodotta una propria. Ecco di seguito quella di Johannes Ockeghem, uno dei primi maestri franco-fiamminghi ed un compositore di straordinaria statura e profondità.

Appare dunque chiaro che questo Salmo ha ispirato più di una generazione musicale, anche se quelle toccate in questo post appaiono sottilmente legate da una sorta di ‘scuola’, o comunque di vicinanza culturale fra due eccelsi musici. Quanto di voluto ci sia, non è dato saperlo: se sia un consapevole passaggio di testimone o se sia un gioco dell’intelligenza di Madre Natura, non importa, è bello ed incoraggiante che ciò sia avvenuto.

Ed avviene ancora: già da quando ho iniziato a scrivere il post mi è sovvenuta una canzone di chiesa degli anni ’70, che ho cantato e suonato all’epoca, e che grazie a YouTube ho ritovato, con tanto di testo, molto suggestivo nonostante la veste pop, nella versione di un’emula di Giombini, Giosy Vento:

1. Ho bevuto a una fontana un’acqua chiara
che è venuta giù dal cielo….
Ho sognato nella notte di tuffarmi nella luce del sole…..
Ho cercato dentro me la verità.
Ed ho capito, mio Signore, che sei tu la vera acqua,
sei tu il mio sole, sei tu la verità …
2. Tu ti siedi sul mio pozzo nel deserto
e mi chiedi un po’ da bere…..
per il sole che risplende a mezzogiorno ti rispondo…..
ma tu sai già dentro me la verità.
3. Un cervo che cercava un sorso d’acqua
nel giorno corse e ti trovò…..
Anch’io vo cercando nell’arsura sotto il sole…..
e trovo dentro me la verità.

Che dite, tutto questo davvero può essere un caso?

Con affetto

Chemyst

Antoine Busnoys, un ‘Homme Armé’ ed un amore impossibile… o forse no

Carissimi Compagni di viaggio,

mi sono imbattuto, nelle mie scorribande su YouTube, in alcuni brani di Antoine Busnoys (o Busnois), figura gigantesca della scuola Borgognona, dalla controversa biografia, di vastissima cultura e che condivide fama di caposcuola assieme ad Ockeghem il quale,  forse anche grazie alla sua lunga vita, ha conservato, ad oggi, più grande (e meritata) fama. Eccovi qualche dettaglio da Wikipedia:

Antoine Busnois (anche Busnoys) (Busnes, vicino Béthune, 14306 novembre 1492) è stato un compositore e poeta francese, appartenente alla Scuola di Borgogna del primo rinascimento. Famoso come compositore di musica sacra, come mottetti, egli fu anche uno dei più rinomati compositori di chanson profane del XV secolo. Egli fu anche la figura preminente della tarda Scuola di Borgogna dopo la morte di Guillaume Dufay.

Blasone di Busnes

I dettagli della sua vita sono puramente da interpretare, ma si presume che nacque a nei pressi di Calais, forse nel villaggio di Busnes (che poi tanto ‘villaggio’ non doveva essere, visto che ha un proprio blasone), a cui il suo cognome sembra riferirsi. Egli può essere nato in una delle famiglie aristocratiche di Busnes; in particolare, Filippo di Busnes, un canonico della Cattedrale di Notre Dame di Lens potrebbe essere stato un suo parente.

Busnois ricevette una eccellente educazione musicale, probabilmente nella scuola del coro di una qualche cattedrale nel nord (perchè non proprio Bethune?) o nel centro della Francia. L’origine aristocratica può spiegare la sua presenza in giovane età presso la Corte francese: sin dal 1450 sembra che vi si trovasse e nel 1461 era già cappellano a Tours. Che non fosse uno stinco di santo è dimostrato da una richiesta di assoluzione, presentata il 28 febbraio 1461, in cui ammette di aver fatto parte di un gruppo di cinque persone che “avevano pestato a sangue” un prete, non una ma ben cinque volte. Mentre era in stato di interdizione dalla messa, ebbe l’ardire di celebrare messa e per questo venne scomunicato; in ogni caso fu poi perdonato da Papa Pio II.

Si spostò quindi nella Chiesa collegiata di san Martino, sempre a Tours, dove divenne suddiacono nel 1465. Johannes Ockeghem era tesoriere in quella chiesa ed i due ebbero modo di conoscersi bene. Alla fine del 1465 Busnois si spostò a Poitiers, dove non soltanto divenne maestro del coro dei ragazzi, ma si adoperò per attrarre dei bravi cantori da tutta la regione; da questo tempo la sua fama di maestro di canto, studioso e compositore si diffuse in tutta la Francia. In ogni caso partì così improvvisamente, come era arrivato, alla fine del 1466; non si conobbe il motivo della sua partenza ma il suo incar

Carlo il Temerario (Carlo l'Audace)

ico venne dato nuovamente al suo predecessore. Lasciata Poitiers, Busnois si trasferì in Borgogna. Dal 1467 Busnois fu alla corte di Borgogna, ed egli iniziò a comporre per Carlo l’Audaceprima che questi assumesse il titolo di Duca il 15 giugno; ciò si desume da uno dei sui mottetti in hydraulis che contiene una dedica dalla quale risulta che era già Conte. Carlo nel divenire Duca di Borgogna, acquisì prest il soprannome di Carlo l’Audace per la sua fierezza e per le sue ambizioni militeri (che lo porteranno alla morte dieci anni più tardi). Assieme alla sua passione per la guerra, Carlo amava la musica e Busnois fu apprezzato e riverito nella Corte di Borgogna.

In una lista del 1467, Busnois assieme a Hayne van Ghizeghem e Adrien Basin, era citato come “cantore e valletto di camera” di Carlo. Assieme alle sue doti di Cantore e compositore dimostrò doti di guerriero (è stato egli stesso, quindi, un Homme armee) accompagnando il Duca nelle sue Campagne militari, così come faceva Hayne van Ghizeghem. Busnois fu all’assedio di Neuss in Germania nel 1475 e sopravvisse, o non vi partecipò, alla disastrosa Battaglia di Nancy del 1477, nella quale Carlo venne ucciso e cominciò a scemare l’espansione della Borgogna. Busnois rimase alla Corte di Borgogna fino al 1482, ma non si conosce dove sia stato e cosa abbia fatto fino al 1492 quando morì. Al tempo della sua morte si trovava alla chiesa di san Saverio a Bruges. In questo periodo egli era conosciuto in tutta Europa ed i suoi manoscritti circolavano largamente nelle cattedrali.

La sua musica è sorprendentemente ‘moderna’ per il periodo, e sicuramente influenzerà la sua evoluzione, considerando che si trasmetterà lungo un ipotetico ‘asse’ che partendo da lui e da Johannes Ockeghem passa agli  allievi di quest’ultimo, fra cui spicca Josquin Desprez, affiancato da Pierre de la Rue, Loyset Compere, Antoine Brumel, solo per ricordare gli allievi indicati nella magistrale ‘Deploration‘ scritta per la morte di Ockeghem dallo stesso Josquin su testo di Jean Molinet.

Fra le tante cose belle, una prima composizione che mi ha colpito, innanzitutto per la scelta del testo, è ‘Anima mea liquefacta est‘, il cui testo è il seguente:

Anima mea liquefacta est, ut dilectus locutus est.  

Quaesivi et non inveni illum; vocavi et non respondit mihi.  

Invenerunt me custodes civitatis,

percusserunt me et vulneraverunt me.

Tulerunt pallium meum custodes murorum.  

Filiae Hierusalem, nuntiate dilecto quia amore langueo.

Anche altri Autori, come Giovanni Croce, si sono cimentati nel musicare questo testo. Eccone la versione inglese, come riportata nella Bibbia di Re Giacomo (testo linkato da Sabine Cassola proprio dalla sua trascrizione della versione di croce di questo mottetto su CPDL.org).

Song of Solomon, 5

1.    I am come into my garden, my sister, [my] spouse: I have gathered my myrrh with my spice; I have eaten my honeycomb with my honey; I have drunk my wine with my milk: eat, O friends; drink, yea, drink abundantly, O beloved.
2.    I sleep, but my heart waketh: [it is] the voice of my beloved that knocketh, [saying], Open to me, my sister, my love, my dove, my undefiled: for my head is filled with dew, [and] my locks with the drops of the night.
3.    I have put off my coat; how shall I put it on? I have washed my feet; how shall I defile them?
4.    My beloved put in his hand by the hole [of the door], and my bowels were moved for him.
5.    I rose up to open to my beloved; and my hands dropped [with] myrrh, and my fingers [with] sweet smelling myrrh, upon the handles of the lock.
6.    I opened to my beloved; but my beloved had withdrawn himself, [and] was gone: my soul failed when he spake: I sought him, but I could not find him; I called him, but he gave me no answer.
7.    The watchmen that went about the city found me, they smote me, they wounded me; the keepers of the walls took away my veil from me.
8.    I charge you, O daughters of Jerusalem, if ye find my beloved, that ye tell him, that I [am] sick of love.
9.    What [is] thy beloved more than [another] beloved, O thou fairest among women? what [is] thy beloved more than [another] beloved, that thou dost so charge us?
10.    My beloved [is] white and ruddy, the chiefest among ten thousand.
11.    His head [is as] the most fine gold, his locks [are] bushy, [and] black as a raven.
12.    His eyes [are] as [the eyes] of doves by the rivers of waters, washed with milk, [and] fitly set.
13.    His cheeks [are] as a bed of spices, [as] sweet flowers: his lips [like] lilies, dropping sweet smelling myrrh.
14.    His hands [are as] gold rings set with the beryl: his belly [is as] bright ivory overlaid [with] sapphires.
15.    His legs [are as] pillars of marble, set upon sockets of fine gold: his countenance [is] as Lebanon, excellent as the cedars.
16.    His mouth [is] most sweet: yea, he [is] altogether lovely. This [is] my beloved, and this [is] my friend, O daughters of Jerusalem.

Bene, l’idea di un’anima liquefatta ovvero di un principio fisso, lo zolfo, che si scioglie, mi ha fatto immediatamente ‘drizzare le orecchie’, e la ‘scena’ della fanciulla che ‘ode la voce’ (il suono) dell’amato, che cerca di raggiungerla (perchè ‘ha la testa piena di rugiada‘!) ma scompare, e la loro unione viene successivamente  impedita; il suono della voce  produce comunque all’interno della fanciulla un ‘cambiamento di stato’, quasi per ‘risonanza’, e questo mi ha rimandato alle pagine misteriose e sapide del Filalete su ‘La ricerca del Magistero perfetto‘, alle pene ed alle paure di un’altra fanciulla prigioniera (un mercurio dunque…) di uno zolfo arsenicale che le impedisce di assumere la propria natura.

Non sarà un caso che proprio nei Canti di Salomone, ovvero nel Cantico dei Cantici, ancora una volta si trovano passi che possono contenere o suggerire verità alchemiche? Forse no, e forse neppure lo è il caso che un compositore come Busnois, sufficientemente colto ed ‘eretico‘ al punto giusto da caratterizzare la propria esistenza come originale, stravagante ed accettata dalle personalità dell’epoca solo in virtù della propria abilità musicale, colga un insegnamento parallelo ed occultato sotto le parole della Bibbia per trasmetterlo mediante la propria arte alle generazioni successive. Pensate, Busnois scrisse anche un mottetto dal titolo ‘Anthoni usque limina‘, e forse fino ai ‘limina’ di un’altra conoscenza egli, che si chiamava Antonio come il santo (ma Busnois non era nuovo a simbolismi, acronimi, autoreferenze lasciati qua e là sparsi nei propri manoscritti), si era spinto.

Ma Busnois ‘vanta’ anche di essere accreditato come l’autore del famoso tema de ‘L’Homme Armè’, un tema ‘popolare’ che è stato utilizzato da tutti o quasi i compositori rinascimentali come ‘cantus firmus’ o in parafrasi per comporre delle Messe. Non è detto che ciò corrisponda al vero: hanno infatti musicato ‘L’Homme armè‘ anche Guillaume Dufay, più anziano di lui, e Johannes Ockeghem, e circa nello stesso periodo. Successivamente, tutti gli allievi di Ockeghem citati nella ‘Deploration‘ da Molinet, ovvero Josquin, de la Rue, Compere e Brumel hanno fatto altrettanto, e questo potrebbe essere un’altro fil rouge da percorrere, che si dipana attraverso le varie generazioni fiamminghe nel tempo e si estende anche geograficamente in tutta l’Europa: Palestrina, a Roma, Tinctoris, a Napoli, per restarein Italia (non dobbiamo tralasciare che Brumel stette in Spagna, a Laon, per un periodo, che lo stesso Dufay soggiornò a lungo in Italia, a Milano, eccetera…).

Tema de l'Homme Armee

Un’interessante inquedramento storico del tema ‘L’Homme armé‘, usato come tema di base o come cantus firmus in molte messe, ed anche da Busnois (forse come si è detto ne è stato addirittura l’autore) è qui:

http://markalburgermusichistory.blogspot.com/8408/02/antoine-busnois-c-1430-1492.html

Il tema dell’Homme armè è semplice, rude ed evocativo, così come le parole, di queste figure di guerrieri in armatura che spadroneggiavano con prepotenza nei villaggi. A ben guardare, contiene al suo interno anche un frammento tematico de ‘La tricotea‘, altro tema quattrocentesco interessante per noi Cercatori, ma di cui parleremo un’altra volta… certo, se non è un caso, allora è un segnale, in perfetto stile Busnois.

Tornando al nostro tema, è sorprendente come esso venga elaborato in composizioni raffinate e complesse, tanto da essere appena riconoscibile al loro interno:

Ma perchè l’Homme armè? Beh, dopo il ‘Liquefacta‘, ho ascoltato il bellissimo Credo di Busnois su questo tema, e lasciando libera la fantasia ho pensato a questa immagine

“L’Alchimista protegge l’Atanor contro le influenze esterne” – Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali

ed a queste parole:

Rivestito dall’armatura, le gambe bardate di gambali e lo scudo in braccio, il nostro cavaliere è posto sulla terrazza di una fortezza, a giudicare dai merletti che lo circondano. Con un gesto difensivo, egli minaccia con il giavellotto una forma imprecisa (qualche raggio? un gruppo di fiamme?), che è sfortunatamente impossibile ad identificarsi… Dietro il combattente, un piccolo edificio bizzarro, formato da un basamento a volta, merlettato e poggiante su quattro pilastri, è ricoperto da una volta segmentata a forma semisferica. Sotto la volta inferiore, una massa aculea e infiammata ne precisa la destinazione”.

Grazie all’accostamento che ne fa Archer sul suo blog (ma avrei dovuto pensarci io…) un altro Homme armè è disegnato da De Bry nell’Atalanta Fugiens di Michael Maier nell’emblema XX.

 Fra le molte cose scritte nel relativo Discorso da Maier c’è questa descrizione (mia traduzione, un po’ più letterale di quella di Cerchio):

Questo è  il cavaliere ornato da collana, armato con gladio e scudo contro il dragone, affinchè dalle fauci di quello strappi la vergine inviolata Albifica, Beia oppure Bianca nel cognome

I corsivi sono miei, punti che ritengo debbano essere frutto di ulteriore riflessione, ad esempio quell’ornato di collana (torquatus) come traduce il Calonghi, ma che se fosse il participio di torquere sarebbe di ben differente significato, forse con un intendimento operativo. La vergine inviolata, per un’innamorato di Desprez come me, non può che ricondurmi ad una delle sue più interessanti e commovente composizioni:

Non vi sfuggirà quella copiosa ed abbondante discesa di note all’inizio del brano…

Infine, il cognome di Beia? credo che sia perchè esso segue il nome, e che Beia la Bianca sarà così dopo che l’inviolata vergine nera sia stata purificata… ma qui mi avventuro ben oltre il confortante ambito della musica, e lascio questo avventuroso peregrinare ai Compagni (cui dedico questa fatica) nella speranza che essi rispondano, come all’invito di Merula: ‘Dica, dica chi vuole, dica chi sa’.

Buona cerca!

Chemyst