Jean Laplace: una biografia

Esce in questi giorni un articolo di Luca Dragani sulla rivista Bérénice che ricostruisce, sulla base di scarse notizie sparse qui e là in alcuni libri, una biografia possibile di Jean Laplace.

La copertina della rivista ‘Bérénice’

Al di là della possibilità concreta – come onestamente indicato dall’autore – di poter integrare quanto scritto, l’importanza (sancita da una lusinghiera presentazione da parte del board nell’editoriale della rivista) è quella di poter disporre di una prima linea biografica, indagata su autentiche fonti e non (o non soltanto) su leggende o dicerie.

Un estratto dall’Editoriale della rivista Bérénice

È presentata come una “prima ricognizione”italiana, ed è senz’altro vero, ma non ci risulta ne esista ancora una in francese.

Un aspetto originale dello studio è stato il correlare alcune testimonianze scritte con fatti documentabili da fonti disparate, quali la data e il luogo delle sue Hermetiques Ballades, o piccoli segnali disseminati in alcune sue pubblicazioni, in particolare l’Index Canseliet.

Per il reperimento delle fonti l’autore ha attinto alla propria biblioteca, ma si è avvalso anche della preziosa collaborazione di un autore francese, Jean Artero, generosamente prodigo nel fornire copia delle proprie fonti dirette, oltre al poter consultare online il suo blog tenuto con Archer, unico sito web francese (dedicato a Julien Champagne) in cui è possibile reperire qualche informazione su Laplace.

La prima pagina, contenente l’abstract dell’articolo

Anche testimonianze di chi lo ha conosciuto hanno contribuito a definire meglio questo singolare Figlio di Ermete.

Naturalmente, mancano dei tasselli che rendono alcuni aspetti della vita di questo a suo modo straordinario alchimista misteriosi ed intriganti.

Il suo progressivo allontanarsi da “scenari“ affollati fino all’isolamento degli ultimi giorni, sul quale l’autore volutamente tace, rendono l’idea del fatto che Laplace abbia raggiunto un risultato, in termini alchemici, talmente avanzato da non poter essere condiviso neppure con gli amici ed i compagni di viaggio più stretti, come persino Paolo Lucarelli, il quale fu molto addolorato di non aver avuto più sue notizie, e costernato nell’ apprendere della sua prematura dipartita (fonte: Marwān).

Su quanto riportato (e anche su quanto non riportato) si potrà liberamente discorrere e anche – pacatamente – discutere, senza poter travalicare alcuni limiti che ci sono imposti dal rispetto della memoria di Jean Laplace.

Convinto che curiosamente ci osservi dal suo Locus Amoenus, mi auguro sia lieto del perpetuarsi in questa Manifestazione del suo ricordo.

Buona lettura, per chi vorrà.

Chemyst

Carol of the Bells

Natale, tempo di Carole: termine molto generico, di antico lignaggio (risale al Medio Evo), molto usato nella comune accezione con il senso di ‘canto di Natale’…

Fra le molte, bellissime che la tradizione, soprattutto anglosassone, ci ha consegnato, mi ha sempre colpito ‘Carol of the bells’ per il contrasto assordante fra le parole di gioia e la musica, bellissima certo, ma con un che di concitato ed in tonalità minore.

eccovi una versione splendida dei Pentatonix, che fedelmente conserva i caratteri appena citati:

Nel video c’è il testo inglese, qui di seguito una sua traduzione:

Ascolta come suonano le campane
Dolci campane d’argento
Tutte sembrano dire
Butta via le preoccupazioni
Il Natale è qui
Portando buon umore
A grandi e piccini
a miti e audaci
Din-don, din-don
Questa è la canzone
Con tintinnio gioioso
Tutti i canti natalizi (Oh, oh, ah)
Sembra di sentire
Parole di buon umore
Da ogni parte (da ogni parte)
Riempiendo l’aria
Oh, come martellano
Alzando il loro suono
Su monti e valli
Raccontano la loro storia
Suonano allegramente
Mentre la gente canta canzoni di buon umore
Il Natale è qui
Buon Natale
Felicissimo Natale
Continuando a inviare
Senza fine
Il loro tono gioioso
In ogni casa
Ah ah ah
Din-don, din-don
Din-don, din-don
Ascolta come suonano le campane
Dolci campane d’argento
Tutte sembrano dire
Butta via le preoccupazioni
Il Natale è qui
Portando buon umore
A grandi e piccini
A miti e audaci
Oh come martellano
Alzando il loro suono
Su monti e valli
Raccontando la loro storia
Suonando allegramente
Mentre la gente canta canzoni di buon umore
Il Natale è qui
Buon, Buon, Buon, Buon Natale
Buon, Buon, Buon, Buon Natale
Continuano a inviare
Senza fine
Il loro tono gioioso
In ogni casa


​… per il contrasto stridente fra testo e melodia, non sembra anche a voi di immaginarla cantata dal Grinch? Chi è? Ve lo racconto:

Il Grinch è raffigurato come una creatura pelosa, panciuta, a forma di pera, con braccia e gambe lunghe e magre, dalle pupille rosse e bulbi oculari gialli e con un viso da gatto, con una personalità cinica. Ha trascorso gli ultimi 53 anni vivendo in isolamento nella caverna di una montagna, il Monte Crumpit (Monte Briciolaio nel film girato con attori veri), con vista sulla città dei Chinonso (Whoville nell’originale inglese).

In contrasto con gli allegri Chi, il Grinch è misantropo, scontroso, solitario e irascibile, con un cuore che è “di due taglie troppo piccolo” (l’unica eccezione a questo è alla fine del racconto, dove diventa “di tre taglie più grande”). In particolare odia il periodo natalizio, prendendo nota in particolare di quanto siano odiosi per lui i vari rumori di questa stagione, incluso il canto dei cori. Non riuscendo più a sopportare questa festa, decide di distruggerla una volta per tutte.

Aiutato dal suo cane Max, il Grinch si traveste da Babbo Natale e, durante la notte della Vigilia, irrompe nelle case dei Chi per rubare le decorazioni e tutti i regali e portarli sulla montagna per buttarli come fossero spazzatura. Anche se riesce a compiere il furto con successo, è scioccato nel sentire i Chi che cantano ancora allegramente, felici semplicemente di avere l’un l’altro. Si rende quindi conto che la festa ha un significato più profondo che non ha mai considerato. Ispirato, impedisce alle cose dei Chi di cadere dal bordo della montagna e nel frattempo il suo cuore cresce di tre dimensioni. Restituisce tutti i doni che ha rubato e partecipa volentieri alla celebrazione del Natale dei Chi.

L’elemento che forse può guidarci e darci qualche risposta è la campana. Con più rigore in Germania, ma anche in Italia, è praticata una vera e propria scienza delle campane, detta campanologia, che studia le campane dal punto di vista acustico, fisico e anche costruttivo. Dal sito dell’Associazione Italiana di Campanologia (qui) desumiamo informazioni preziose sul suono delle campane.

Nella figura sono indicate le zone di origine dei principali toni parziali: principali, poiché una campana ne genera in media circa 56; inoltre sono chiamati toni parziali e non armonici perché non sono generati a partire da una sola nota fondamentale ma da più fonti sonore contemporanee.

Il suono di una campana è, come per tutti i suoni, composto da un transitorio d’attacco, da un regime stazionario e da un transitorio di estinzione o di risonanza decrescente. Quando il battacchio colpisce la campana suscita un suono complesso del quale il nostro orecchio riconosce la frequenza detta ‘prima’ e che identifica il tono della campana, seguito da un regime stazionario pressoché inesistente (laddove negli strumenti musicali è questa la fase che ne caratterizza il timbro) e poi da una lunga risonanza decrescente in cui possiamo percepire una quinta, un’ottava superiore e una inferiore ed infine una terza. Minore, però: almeno fino al XX secoli nessuno è riuscito a far generare una terza maggiore a una campana.

Questo aspetto è quello che associa al suono delle campane, per quanto festoso soprattutto quando costruttori intelligenti combinano un concerto di campane gradevole e rapido, un che di malinconico: quel suono di unica campana di chiesa di campagna che annuncia il vespro, ad esempio, e che noi percepiamo in distanza come di una sola nota (la ‘prima’) ma che in realtà porta con sé un accordo minore.

Già, minore. Come in ‘Carol of the Bell’. I conti iniziano a tornare.

Giovanni Pascoli coglie per noi il senso di questo suono, nella splendida ‘Campane a sera‘:

Forse per la giornata uggiosa con una pioggia interminabile, mi torna in mente la prima prefazione alle Dimore Filosofali di Fulcanelli, scritta da Eugène Canseliet, laddove parla della quarta campana il cui suono evoca la fine del mondo, facendo riferimento a questa immagine:

Riprendiamone tutto il passo: “Dallo stesso punto di vista che abbiamo esposto sopra, non abbiamo dubbi che il Maestro avesse classificato, nelle sue dimore filosofali, uno dei magnifici capitelli provenienti dalla basilica romanica di Cluny, in Saône-et-Loire, di cui l’Abbazia celebre, comprendente la biblioteca costituita dai più preziosi volumi manoscritti, in gran parte saccheggiata e devastata dai calvinisti nel 1562, fu totalmente distrutta, nel primo anno della Repubblica, dalla soldatesca rivoluzionaria. In questa scultura… riconosciamo l’araldo della quarta età, prossima al termine, del ciclo che si sta chiudendo. Si tratta di un giovane che indossa una lunga tunica e che porta sulla spalla un bastone con alle estremità un campanello. Un terzo, senza batacchio, è trattenuto, mediante una sorta di cinghia, sull’avambraccio sinistro del nostro impiegato. Senza dubbio, nella mano destra stringeva un martello, con l’unico scopo di suonare la più terribile campana a morto, in quell’ufficio che lo sottopone a durissime contorsioni.
La ciclica campana a morto che annuncia l’abominio della desolazione ai popoli, numerosi e gregari, che vivranno gli ultimi fasti dell’età del Ferro.
Ma, si obietterà, cosa c’è di sorprendente, se non, senza di più, “il tintinnabulum” che fu caro al Medioevo romanico e che ritroviamo, similmente rappresentato, su due capitelli non meno mirabili; uno, a Vézelay, nella chiesa della Madeleine, l’altro, ad Autun, nella cattedrale Saint-Lazare?

C’è infatti che il personaggio, figurato in altorilievo, entro una mandorla, trae tutto il suo significato ermetico, dall’esergo latino che è inciso incavato sul bordo piatto dell’ellisse e che racconta, molto chiaramente, la gesticolazione dell’araldo apocalittico, al futuro fatale della pluralità degli uomini:

SUPLEDIT QVARTVS SIMVLANS IN CARMINE PLANCTUS.

Egli sferra, riproducendo, in obbedienza alla profezia, il quarto colpo”.

Non sfugge all’osservatore che il secondo portatore di campane, del tutto affine al precedente, riprodotto a Autun, abbia però un ruolo passivo in quanto in questo caso altri DUE personaggi colpiscono con i loro martelli le campane. Del capitello di Vezelay non ho potuto reperire l’immagine.

Ma arriviamo alla scritta incisa nell’amigdala che contiene il nostro portatore/suonatore di campane: “SUPLEDIT QUARTUS SIMULANS IN CARMINE PLANCTUS”. Abbiamo visto che Canseliet traduce: “In obbedienza alla profezia, batte, riproducendolo, il quarto colpo”. Come molto spesso accade in Canseliet (che peraltro in nota in questo caso giustifica in parte le scelte di traduzione) questa versione non è letterale. Come accade ancora più spesso, i termini usati in questo basso Latino hanno significati molteplici: ad esempio ‘planctus‘ è al tempo stesso ‘colpo’ e ‘lamento’ (ci si batteva il petto, nei funerali…), ma anche, proprio nel periodo dei capitelli (XI secolo) il nome di composizioni musicali monodiche di compianto. La forma musicale è anche più antica, come in questo esempio (in cui c’è anche un glockenspiel, o tintinnabulum, per restare in tema):

Canseliet inoltre traduce ‘simulans in carmine‘ con ‘riproducendo come nella profezia’. Indubbiamente una traduzione corretta, ed esteticamente adeguata alle abilità di latinista del compianto Maestro. Prima però di analizzare ‘simulans’, vorrei soffermarmi sulla parola ‘carmen’ che ha radice comune – incidentalmente – con ‘carol’ e ‘carola’ ed il cui primo significato è ‘canto’, ‘melodia’ (in italiano, per quanto desueto, esiste il termine ‘carme’), e via via ‘poesia’ e ‘incantesimo’ (da in e cantus). D’altronde, se in molte tradizioni (norrene, o nel Popol Vuh, fino al ‘contemporaneo’ Tolkien) il mondo è creato con il canto, allo stesso modo esso potrebbe essere terminato, con un possente ‘Dies Irae’ come quelli di Mozart o di Verdi o anche, fatte salve le differenze di linguaggio musicale, del nostro amato Ockeghem, o più melanconico come il gregoriano:

Il testo del Dies irae è zeppo di suggestioni alchemiche che non sfuggono all’operatore anche all’inizio del cammino: chissà se Canseliet volesse condurci proprio lì? Ci torneremo, in parte. Per quanto riguarda ‘simulans’ tradurremmo letteralmente ‘simulando’: d’altronde ogni atto magico è una simulazione, un’imitazione di un rituale già scritto, e in Alchimia, ancor di più che in magia, la ripetizione, la reiterazione sono atti fondamentali; e l’Alchimista è ‘Simia Dei’ (e le scimmie forse si chiamano così per la loro attitudine imitativa).

Ma per la creazione alchemica si passa per un atto, almeno apparentemente, distruttivo: l’Alchimista stesso ‘solvet seclum in favillam‘ per avere un corpo nuovo, differente: la Fenice che rinasce dalle proprie ceneri non è la stessa che è bruciata via, ma il ‘figlio più bello del padre‘.

E pur sempre di un Figlio si tratta, un Figlio di Dio… ricordate Lucarelli alla Sorbona? Un figlio che ciclicamente, a ogni fine d’anno, rinasce quando il buio è più fitto (il paragrafo di Canseliet precedente a quello che abbiamo analizzato ne parla).

Elémire Zolla ci ricorda che “Fra le cose si sta come tra suoni di campana in una foresta di notte, dice Paracelso, e se la loro causa ci resta sconosciuta è perché non camminiamo nella luce“.

Infine, costanti riferimenti al suono e alla musica ci fanno ritenere che debba in qualche modo entrare in gioco una vibrazione, una risonanza…

Ascoltiamo dunque il suono delle campane: è malinconico, ma contiene un messaggio antico di speranza, velato sotto un annuncio ferale.

Auguri per un Avvento sereno

Chemyst

Un anno di Luce si approssima… di nuovo

Carissimi Amici, Compagni e Fratelli,

ancora una volta è Natale. Ancora una volta, con la luce obliqua (bellissima) del solstizio d’inverno, si riflette, si ricorda l’anno trascorso, si guarda al venturo, con trepidazione e speranza misti a timore.

Non è il momento, questo, di recriminare sugli errori che certa umanità allo sbando persevera nel commettere con la pandemia (anche se di cose da dire ne avrei, e molte…), rendendosi responsabile di tanti morti e tanti futuri invalidi, e alla soglia di un molto prossimo, ulteriore periodo di lavoro in un reparto Covid per cui non posso che ringraziare la medesima, sconsiderata ed ignorante fetta di umanità di cui sopra.

Posso però, ancora una volta, cercare nella musica che ci scalda comunque il cuore durante il Natale qualche piccolo seme di saggezza che molti, tanti, troppi amici cari hanno smarrito, forse per paura, forse per troppo amore, forse semplicemente per quello che nella canzone che vi sottopongo, viene definito ‘Satan’s power‘.

Fra l’altro rileggo, in questi giorni, il bel libro di Tolkien ‘Il Silmarillion‘, i cui eroi sono, per antico errore, destinati alla rovina a dispetto della loro integrità e del loro valore. Fra di essi, mi riconosco in due, Maglor, figlio di Feanor, ed Echtelion, signore delle Fontane di Gondolin, entrambi musici ed entrambi fedeli, contro il Male (Morgoth, l’equivalente tolkieniano del ‘Satan’s power’), a costo della vita.

Ma torniamo al canto: si tratta di ‘God rest you merry gentlemen‘, il cui testo è il seguente:

God rest ye merry, gentlemen,
Let nothing you dismay
Remember Christ our Saviour
Was born on Christmas Day
To save us all from Satan’s power
When we were gone astray.
O tidings of comfort and joy,
comfort and joy;
O tidings of comfort and joy!

“Fear not,” then said the angel
“Let nothing you affright
This day is born a saviour
Of a pure virgin bright
To free all those who trust in him
From Satan’s pow’r and might”
O tidings of comfort and joy,
comfort and joy;
O tidings of comfort and joy!

The shepherds at those tidings
Rejoiced much in mind,
And left their flocks a-feeding
In tempest, storm and wind
And went to Bethlehem straightaway
This blessed babe to find
O tidings of comfort and joy,
comfort and joy;
O tidings of comfort and joy!

But when to Bethlehem they came
Whereat this infant lay
They found him in a manger
Where oxen feed on hay
His mother Mary kneeling
Unto the Lord did pray
O tidings of comfort and joy,
comfort and joy;
O tidings of comfort and joy!

Now to the Lord sing praises
All you within this place
And with true love and brotherhood
Each other now embrace
This holy tide of Christmas
All others doth deface
O tidings of comfort and joy,
comfort and joy;
O tidings of comfort and joy!

Nel web circolano varie traduzioni e qualche fraintendimento, su cui mi piace giocare un po’. Partiamo dall’inizio, da ‘God rest you merry gentlemen’: troviamo spesso una virgola dopo ‘merry’, e la traduzione fantasiosamente diviene ‘Dio vi faccia riposare felici’ o variazioni simili, che suonano tra l’altro un po’ funebri (riposi in pace…), mentre senza è ‘Dio vi dia pace (o riposo), felici gentiluomini’. mi piacciono le traduzioni letterali, lo sapete… e ‘gentlemen’ sono tentato di tradurlo come ‘uomini gentili’, e felici e gentili dovremmo tutti essere, a Natale e non solo.

Merry poi – lasciatemi divagare un po’ – è anche il diminutivo di Meriadoc Brandibuck ne ‘Il Signore degli Anelli’, un giovane campagnolo e scanzonato che assieme ad altri tre piccoli Hobbit trasformerà il mondo e contribuirà a far sparire, per un lungo periodo, le Ombre del Male dalla Terra di Mezzo.

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Ce lo ricorda Lucarelli: ‘Tutto, in Alchimia, dev’essere serietà, senno, benefizio e giubilo’. Bisogna essere… ‘merry’.

Let nothing you dismay‘ è augurio sintonico, ‘che nulla ti sgomenti‘, e prosegue con un ammonimento: ‘Ricorda che Cristo nostro Salvatore è nato il giorno di Natale per salvare tutti noi dalla potenza di Satana quando ci smarriamo‘, e già un qualche timore si insinua, sentendo parlare della ‘Potenza di Satana‘, un pericolo molto reale e che tendiamo a dimenticare. Ci risolleva però il morale il ‘refrain‘ che recita ‘O notizie di conforto e gioia!‘. Confortante e gioioso, certamente, ma quell’accenno al potere di Satana ci ricorda qualcosa, scritto anche nella nota più letta e riletta di Paolo Lucarelli al ‘Mistero delle Cattedrali di Fulcanelli, quando elenca i termini che designano la tanto agognata Materia Prima: ‘Satana, drago scaglioso, eccetera…‘.

Forse è un accostamento ardito, ma in fondo anche il nostro drago scaglioso, se dovessimo smarrirci anche per poco lungo la Via, potrebbe manifestare la sua potenza a rischio della nostra salute, mentre con l’aiuto del Salvatore quella potenza, ovvero quel qualcosa presente ‘in potenza‘, può portarci ad avvicinarci alla nostra meta, che un Maestro ha definito ‘la Gerusalemme celeste‘.

Una piccola conferma arriva dalla seconda strofa, dove un Angelo (ovvero un… messaggero alato!) conforta il pastore spaventato dicendogli ‘Non temere, non lasciare che alcunché ti terrorizzi, oggi è nato un salvatore da una vergine immacolata (a pure and bright virgin, una vergine pura e spendente… ancora una volta, come non pensare a quanto, con la sua graffiante ironia sempre Paolo Lucarelli diceva alla Sorbonne ‘occorre una Vergine Immacolata per fare un Figlio di Dio!‘). Il salvatore salverà poi tutti coloro che credono in lui, sempre dal potere di Satana. Un invito valido non solo per i Credenti.

I pastori quindi, infervorati da queste parole, abbandonano le greggi e si recano ‘straightaway‘ verso Betlemme, per trovare il miracoloso infante. Straightaway fa pensare a qualcosa come per la via più rapida, più breve. Lì lo trovano, in un’umile mangiatoia, con accanto la Vergine, il bue che mangia fieno…

L’ultima strofa è un invito a tutti i Fedeli a cantare lodi al Signore ed ad abbracciarsi l’un l’altro con vero amore e fratellanza, mentre gli altri letteralmente saranno deturpati (defaced, privati del volto). Un richiamo, valido anche per chi cerca, a non essere divisi e distanti. La cerca è una, ed è individuale. E’ vero, ma il conforto dei Fratelli è indispensabile.

Un abbraccio a tutti i Cercatori sinceri e di cuore. Buon Natale.

Chemyst

Hevene Quene…

Cari Amici,

da un po’ questo blog tace. E’ sempre più difficile, per me, scrivervi, e le occasioni per trovare il tempo necessario sono sempre più rare. Di cose da dire ce ne sarebbero, ma è bene non farlo con superficialità, per questo preferisco diradare i post se posso privilegiare qualcosa di valido.

D’altra parte, di Alchimia trovate altrove chi ne sa di più, ed anche chi è convinto di saperne di più. Io da parte mia sono convinto di saperne poco, e più avanzo più scopro una materia delicatamente complessa: come d’altronde potrebbe non essere, se essa descrive l’essenza stessa del mondo, anzi, di questo mondo e quell’altro?

Tuttavia, accontentiamoci delle briciole: esse aiutarono Pollicino, e sono sempre utili.

Il tempo è quello di Natale, ed oltre a fermarci come fa il Sol Invictus a considerare quel che è stato e quel che sarà, ascoltiamo sempre con caldo affetto le musiche del periodo. Fra queste, trovo straordinaria una semplice melodia a due voci del tempo antico, scritta nel lontano XIII secolo nella lontana Inghilterra: si tratta di Edi beo thu, una nenia dal sapore pastorale, che tuttavia ha un’importanza musicale non banale.

Metto un paio di versioni, le migliori che ho trovato, anche se una ‘troppo colta’ (la seconda) e l’altra più fedele, ma con un bordone aggiunto che, in fondo, tradisce la vera spinta innovativa di questo canto, all’apparenza semplice.

Si tratta in realtà di un canto devozionale (non liturgico, forse paraliturgico) dedicato alla Vergine Maria (Hevene quene sta, in Inglese medio, per Heaven’s queen), e quindi non strettamente natalizio: tuttavia il suo carattere pastorale ce lo avvicina alle pive che immaginiamo debbano adornare ogni presepe, ed il suo ritmo dolcemente binario ma su base ternaria (ad ulteriore testimonianza della sua antichità) ci culla amorevolmente.

D’altra parte, molto del miracoloso insito nella Nascita del Redentore sta nel fatto che essa sia avvenuta tramite la Vergine Maria, la Virgo un tempo Paritura, la Figlia che partorì il Padre, la straordinaria creatura che fu la tempo stesso Madre di Dio, Figlia di Dio ed in quanto tale Sorella di Cristo.

Il testo, traslato in inglese moderno, suona così:

Blessed are you, queen of heaven, people’s comfort and angels’ bliss,
Mother unblemished, maiden pure, such in this world none other is.
It is clear for all to see, of all women, you have the prize.
My sweetest lady, hear my prayer, have pity on me if your will it is.

You ascend as the ray of dawn which rises out of the darkest night.
From you springs new illumination, bathing the whole creation in light.
There is no maid of your complexion, fair and beautiful, fresh and bright.
Sweet lady, on me have compassion and have mercy on me, your knight.

Blossom sprung from a single root, the Holy Ghost made you heavenly queen.
That was for the good of all people, for our eternal souls to redeem.
Lady, mild, soft and sweet, I cry for mercy, I am your man,
Both hand and foot and all completely, serving you in all ways that I can.

You are earth’s goodly seed, on you falls the heavenly dew.
From you springs the blessed fruit the Holy Ghost has sown in you.
You bring us out of care and dread that Eve so bitterly for us brewed.
You shall us into heaven lead, so well sweet is that heavenly dew.

Mother, full of noble virtue, maiden so patient, lady so wise.
I am in your love now bonded, and for you is all my desire.
Shield me from the fiend of hell, as you are noble, and may and will
Help me till my life is ended, reconcile me to your son, his will.

E’ un testo accoratamente devoto, che un Cavaliere rivolge alla Vergine Maria. Tuttavia, alcune espressioni ricordano quelle mutuate dal linguaggio alchemico per parlare della materia, dello spirito universale, del figlio celeste… c’è spesso citata la Luce, ‘Tu sorgi come il raggio dell’alba che sortisce dalla notte più nera‘ mi pare ad esempio molto significativo: mi riporta immediatamente in mente il titolo del trattato di Santinelli, Lux obnubilata suapte natura refulgens. E dice ‘dalla notte più nera‘: parla, direte, del Solstizio d’Inverno, e ci sta, siamo a Natale, le notti, soprattutto al nord, sono lunghe… oppure parla del ‘nero nerissimo‘ necessario a che sorga la Lux?

Anche la Rugiada ricorre, ed è ‘heavenly‘, proprio una ‘Rugiada celeste’! E serve a far sbocciare il seme nella terra, così come lo Spirito Santo fa nascere il Figlio benedetto dal suo ventre: ed anche questa metafora la conosciamo bene, Lucarelli ci dice che per fare un Figlio di Dio ci vuole una Vergine Immacolata…

In questi giorni oscuri, dunque, ci sia di conforto la preghiera del fedele Cavaliere che sotto le spoglie di un’ingenua passione ci tramanda, mediante una dolce polifonia arcaica (ma quanto importante! Da musica così nacque, per l’uso sapiente che fece Dunstable delle terze, addirittura la Scuola Fiamminga! Ma questa è un altra storia…) insegnamenti preziosi, piccole briciole per noi perduti Pollicini testardi ed altrettanto devoti alla Bianca Dama dei nostri sogni.

Chemyst

Tradizione e Segreto

Cari Cercatori e carissimi Neofiti,

questo post nasce da una discussione (forse è meglio dire da una serie di discussioni) su un social network a proposito dei temi più “misteriosi” dell’arte sacra, ovvero materia prima e fuoco segreto. Resta inteso che, per tradizione appunto, non nominerò la prima, mentre per il secondo non dirò nulla poiché le mie convinzioni conoscenze al riguardo non mi consentono di parlarne in termini di certezza. “Allora non c’è nulla da dire?” mi chiederete. Invece no, c’è molto da dire anche così: in tutti i classici dell’ermetismo si parla di materia prima e fuoco segreto senza mai fornire “ricette“: poiché in confronto ai veri maestri io sono molto meno, il massimo che riuscirò a fare sarà… un post!

È noto che la mia Cerca alchemica si svolge nel milieu di Fulcanelli, Canseliet, Lucarelli: quest’ultimo, nella sua opera magistrale di commento al Mistero delle Cattedrali, indica grosso modo il procedimento per ottenere la materia prima. Qui, per qualcuno, sta la prima sorpresa. La materia prima va preparata, va ottenuta, non esiste “in natura” o, men che meno, in negozio. Lucarelli comunque, pur spingendo la sincerità a livelli mai visti prima, non nomina “ingredienti“. Il passo è celebre, a pagina 79 della seconda edizione di Mediterranee, in un periodo che inizia così: “Da una reazione iniziale di misti imperfetti…“. Non dice assolutamente quali. Nessuno lo fa: qualcosa, certamente, è trapelato, in epoca digitale, da qualche ambiente soprattutto francese: gira in rete uno schema, di Atorene, il quale, temo, se ne è assunto le conseguenze.

È più utile, però, a mio avviso, ragionare sui termini. E questo è un principio basilare per lo studio dei testi: ne consegue che chi voglia farlo dovrà dotarsi degli strumenti di analisi necessari. Per quanto possa essere considerato un atteggiamento un po’ snobistico, ritengo necessario (se non indispensabile) avere una buona conoscenza del latino ed è utile anche quella del greco, per poter controllare dalle fonti sia il testo originario sia le citazioni. Io stesso ho dovuto mettermi a studiare il francese, data la numerosità dei testi scritti in questa lingua. È del tutto evidente che conoscere il latino metta al sicuro da certe risibili traduzioni dell’acrostico V.I.T.R.I.O.L., ad esempio, ma anche da certe letture “spiritualistiche” o di “alchimia interna” della lettera di Pontano.

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Misti imperfetti“: ricordo che la prima cosa che appuntai sul mio quaderno fu: “sono più di uno“. Dunque la materia prima è il prodotto di un processo (anche) chimico, cui partecipano più sostanze. Queste Lucarelli le definisce “misti”: chiesi allora: “Sono sali? Solfuri?” Mi fu risposto di non pensare in termini chimici, ma di principi alchemici, ovvero ogni sostanza, meglio ogni corpo è composto da un mix di Solfo e Mercurio. Quando questa proporzione non è perfetta (oro) si parla dunque di misti imperfetti. Tuttavia, Non mi tolgo dalla testa che con il termine “misto” Lucarelli abbia voluto sottolineare un aspetto più sottile, nonché fondamentale, per la riuscita di un procedimento che sta all’inizio delle operazioni per questo motivo dette “filosofiche“, per una facile cabala fonetica.

Criticare peraltro la riservatezza di chi segue una certa linea di comportamento (derivato da un impegno condiviso con i compagni più esperti) è direi inutile, in più inopportuno: sembra invece a chi scrive che tali critiche siano solo frutto di irritazione di chi non ha ricevuto “da bocca ad orecchio” un impianto di ricerca (mai un recipe!) sul quale lavorare negli anni per capire dove indirizzare i propri sforzi. Utilizzare poi quale pretesto di esclusione dall’indirizzo di neofiti tutti i testi legati a questo filone (parliamo di testi quali il Mistero delle Cattedrali, le Dimore Filosofali, L’Alchimia spiegata sui suoi testi classici, Alchimia simbolismo ermetico e pratica filosofale, Due luoghi alchemici, e via via “per li rami” tutta la produzione francese di Bernard Chauviere, Severin Batfroi, Jean Laplace per citarne solo alcuni, e tutta quella italiana) mi sembra rientrare in una sorta di voluta “damnatio memoriae“. Ma allora, se utilizzassimo un tale criterio con logica, dovremmo escludere anche i grandi classici citati al loro interno, quali quelli di Nicolas Flamel, Valois, Limojon de Sainct-Disdier, Basilio Valentino, Filalete… In pratica tutta la storia dei trattati di alchimia, ripresi e commentati nel dettaglio degli autori di scuola di Fulcanelli.

Certo, il punto di vista di chi ha, dal 2008, sposato l’idea di Fulcanelli ed epigoni può essere criticato come “di parte“. Lo riconosco. Mi permetto però di criticare a mia volta chi non utilizza le fonti dirette, ma soltanto traduzioni che gli appaiono convenienti (su che base? perché “sembrano” dire cose che fanno comodo?) perché non ha le conoscenze culturali che prima abbiamo indicato come necessarie.

Non voglio dire che sia indispensabile un cursus studiorum letterario, più magari anche una laurea in Fisica… Non è questo che si richiede. Sono altresì convinto che nell’approccio culturale e metodologico di chi si applica a questa Scienza sia necessaria una cultura ad ampio raggio che includa scienze umane, tecnologiche, linguistiche e che, in mancanza di alcune di esse, per quanto difficoltoso, il ricercatore obbligatoriamente debba integrarle per quanto gli sia possibile.

Questo – mi rendo conto – pare in contrasto anche con certe frange nel mio stesso milieu che affermano che lo studio abbia importanza inferiore alla pratica di laboratorio: direi più correttamente che senza una pratica di laboratorio (con buona pace di alchimisti “interni” o “spirituali“) non si va da nessuna parte, ma che per intraprendere un cammino corretto e per poi riconoscere e valutare i risultati bisogna avere un background culturale solido e multidisciplinare. Mi confortano in questo l’immagine e l’epigramma 42 dell’Atalanta Fugiens di Maier, in cui la “lectio” è posta con pari rilievo accanto all’osservazione, all’esperienza e al ragionamento. È anzi indicata come la “lampada“, ovvero ciò che illumina, rende chiaro, ogni risultato di laboratorio.m-maier-_atalanta_fugiens-_1618-_emblem_xlii

Ma eravamo partiti dalla materia prima, che “prima“, come abbiamo visto, non è, poiché bisogna in qualche modo crearla a partire da altre materie, e dal fuoco segreto, indispensabile “artificio“, ovvero anch’esso “fatto con arte” come suggerisce l’etimo, ma che si manifesta quando le opportune condizioni si vengono a realizzare. Ho una mia personale idea del fuoco segreto, che devo primo poi riuscire a verificare, che si basa (non solo, ma anche) su un versetto dell’alchemico “Patrem parit filia” di Pierre de Corbeil (ne parlammo qui):

Artifex in opere“.

Per il resto, abbiate pazienza. La scala dei filosofi, la chiama Valois.

Con affetto,

Chemyst

Le Feu du Printemps

Cari Compagni,

ci siamo!  Dice Elemire Zolla, l’Alchimista del Verbo, come lo ha definito Paolo Lucarelli, ovvero colui che ha penetrato con il solo studio dei testi più di un segreto operativo alchemico, che un osservatore posto in un luogo propizio possa sentire un tuono quando il Sole entri in Ariete.

È un’immagine suggestiva, romantica se volete, sicuramente benefica per chi abbia la possibilità di sperimentarla, ma ha – e come dubitarne – dei risvolti ‘filosofici’: è infatti in Primavera che la Natura si risveglia per mezzo del Fuoco (I.N.R.I.), e l’Ariete  (connesso a Marte) è un segno di Fuoco, ed è proprio Marte (in qualche modo) che ci consente di ‘aprire la porta’ e fornire un altro Fuoco, Sulfureo nel miglior intendimento filosofico possibile, alla nostra ‘progenie di Saturno’. Ma – come per tutte le cose nella nostra manifestazione duale – per semplicemente ‘essere’ – ha bisogno di un’Acqua, un Mercurio magari… Ed ecco che il Fuoco che ci necessita ci viene fornito da un’Acqua mirabile, in-formata di Fuoco…

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Più mi addentro in questo meraviglioso garbuglio in cui tutte le cose cambiano di segno, e più con gioia scopro che i segni e le polarità di ogni materia, agente, sostanza o sale, sfuggono alla nostra categorizzazione, e minano ogni nostra certezza. Eppure comincio a vedere, in tutto ciò, una grande bellezza.

E scopro così che, in fondo, ogni acqua (anche quella per fare la pasta) è un fuoco.

Buona Primavera a tutti i Folli, ma proprio a tutti, dalla Sicilia, dalla Campania, dalle mie verdi e martoriate contrade, dalla verde Sardegna e dall’ancor più verde, direi Vitriolica, Umbria, alle campagne dell’Urbinate, alle pianure d’Emilia e di Romagna ed a quelle Mediolanensi, alle acquee contrade Pavesi, alle magiche strade Torinesi e finanche ai monti del Trentino, ovunque ci sia un Cercatore (purchè d’animo sincero e dal cuore affettuoso) che celebri l’Acqua Ignea della Luminosa Rinascita della Natura prodiga e feconda.

Ed ora,  al lavoro…

Chemyst

Da un ‘Jeu d’Enfants’ all’altro…

Negli anni dell’infanzia si usava, quando possibile, giocare a calcio dove capitava: un cortile, la villa comunale, la spiaggia, un prato, persino dentro un’area archeologica vicino casa sulla quale era cresciuto un comodo manto erboso, comodo per chi, come me, giocava in porta…

A volte, specie se da una parte o dall’altra giocava qualcuno bravo, c’era sproporzione fra una squadra e l’altra ed il risultato poteva essere un ‘cappotto‘ di 7, 9 o anche 10 a 0. In quel caso la squadra vincitrice intonava un ritornello canzonatorio verso gli sconfitti che suonava più o meno così:

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(il dialetto delle parole si può tradurre così: ‘Eo eo, vi abbiamo imbottigliato, eo eo vi abbiamo ubriacato‘).

A distanza di molti anni, esplorando il repertorio rinascimentale con il tema del vino, mi sono imbattuto in una nota ‘chanson rustique‘, riportata nel Cancionero de Palacio, che inizia nello stesso modo: La Tricotea.

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Eccone un esempio da YouTube:

(una chicca, un’esecuzione vintage di una delle formazioni più belle dei King Singers).

L’incipit è assolutamente identico, e lo spirito è similmente giocoso: La Tricotea ha infatti un testo costituito da un misto di dialetti franco-ispanici, la cui origine pare sia da ricercare nelle osterie del porto, vero crogiolo linguistico in cui si fondono le ‘parlate ‘ certo non letterarie di marinai provenienti da ogni dove e che danno origine ad un testo in cui si riconoscono temi quali la ragazza ‘facile’, il vino, il cibo e i santi da prendere in giro. Ecco il testo:

La tricotea,
sa Martin la vea.
Abres un poc
al agua y señalea.
La bota senbra tuleta,
la señal d’un chapiré.
(Ce/Ge) que te gus per mundo spesa.
La botilla plena,
Dama, qui mana,
cerrali la vena,
Orli, cerli, (trun/trum), madama,
cerlicer, cerrarli ben,
(votr’/botr’) ami contrari ben.
Niqui, niquidón,
formagidón, formagidón.
Yo soy monarchea
de grande nobrea.
Dama, por amor,
dama, bel sé vea,
dama, yo la vea.

Yo é clavar el (molin/molín)
y untar el batán.
No me des pan
nin torresne de tosín.
La bota senbra tuleta,
la señal d’un chapiré.
(Ce/Ge) que te gus per mundo spesa.
La botilla plena,
Dama, qui mana,
cerrali la vena,
Orli, cerli, (trun/trum), madama,
cerlicer, cerrarli ben,
(votr’/botr’) ami contrari ben.
Niqui, niquidón,
formagidón, formagidón.
De vos haré bisoña
qu’en tota Borgoña
non trobéis otro mí par;
dama bel, sé mea;
dama, yo la vea.

Ora, questo frammento tematico comune fra ‘La tricotea‘ e il giocoso tema della mia infanzia è in comune anche con una chanson, sempre di sapore popolare, attribuita però storicamente a Antonine Busnois, di cui ci siamo già occupati: ‘L’Homme armè’. Con le dovute differenze (il tempo, ternario e non binario, sostanzialmente) nelle battute 12-19 ritroviamo le stesse note:600px-lhommearme-1

Ci piace riportare qui, ad integrazione di quanto già documentato, assieme alle implicazioni alchemiche, il nome dei numerosi compositori che hanno utilizzato come ‘cantus firmus’ questo tema  per comporre delle messe:

Antoine Busnois, Guillaume Dufay, Josquin Desprez, Pierre de la Rue, Loyset Compere, Antoine Brumel, Johannes Regis, Johannes Ockeghem, Guillaume Faugues, Johannes Tinctoris, Firminus Caron, Mathurin Forestier, Jacob Obrecht, Bertrandus Vaqueras, Philippe Basiron, Mambrianus de Orto, Robert Carver, Matthaeus Pipelare, Cristobal de Morales, Francisco de Penalosa, Vitalis Venedier, Francisco Guerrero, Ludwig senfl, Giovanni Pierluigi da Palestrina.

Si tratta di ben 24 compositori, in gran parte appartenenti alla scuola franco – fiamminga o ad essa legati (penso a Morales, o allo stesso Palestrina) e 9 di essi appartengono al duplice elenco di musici citati da Francois Rabelais nel famoso prologo al IV Libro di Pantagruel (1522: questo cut-off in qualche modo aumenta percentualmente il numero dei compositori ‘rabelaisiani‘ perchè consente di escludere quelli più recenti come data di pubblicazione delle loro messe). Questo è solo l’elenco relativo alle messe: ‘L’Homme armè‘ entra peraltro in composizioni diverse come i mottetti e le chanson (penso ad esempio a Robert Morton).

Mi sono letteralmente dannato per conoscere esattamente il significato della parola ‘Tricotea‘: la sua radice è verosimilmente ‘tricot‘, che ha a che fare con il cucito. Il termine tuttavia ricorre in chanson con chiaro significato erotico: cito ad esempio “Je me complains” del grande Josquin Desprez, che finisce così:

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ma anche un’anonima chanson quattrocentesca politestuale a tre parti, che però fa assumere a questo tema popolaresco nuova importanza, come vedremo. Si tratta di ‘La tricotea / A la tricoton /Maistre Pierre‘. Dunque, nel testo della terza voce ecco comparire ‘Maistre Pierre du Coingnet‘!

Dunque, oltre al tema de ‘Lhomme arme’, come abbiamo visto ricco di connessioni con l’Alchimia, non sfugge  a chi ha letto i due libri di Fulcanelli, la connessione a Maistre Pierre du Coignet. Nel Mistero delle Cattedrali vi si fa riferimento a proposito di una statua, che rappresenta il diavolo in forma di un cane nero, posta un tempo a Notre Dame de Paris e nella Cattedrale di Sens, ribattezzata ‘Maistre Pierre du Coignet’ dal popolo (probabilmente, come vedremo, su istigazione del clero), nella cui bocca aperta i fedeli usavano spegnere i mozziconi delle candele ancora accesi.

Paolo Lucarelli nelle note al Mistero spiega e tenta di tradurre con “Mastro Pietro del Cantuccio“, simbolicamente alludendo alla nostra materia iniziale, fetida, nera e disprezzata che tuttavia è, in potenza, la ‘Pietra maestra angolare’ della Grande Opera (rammento anche nella liturgia pasquale il versetto ‘La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo’ in cui, noto con un sorriso, sopravvive un’indicazione forse involontaria al prodotto al tempo stesso luminoso e oscuro della prima congiunzione), ovvero il Mercurio Comune. Nelle Dimore Filosofali si cita invece un Maistre Pierre du Coingnet nel capitolo sul Grimorio del Castello di Dampierre ed è lo stesso Fulcanelli a dargli la traduzione di ‘pietra maestra di conio‘, ovvero ‘la nostra pietra angolare ed il blocco primitivo sul quale tutta l’opera è edificata‘ (suggerisco vivamente di rifarsi all’originale francese, di recente ripubblicato in anastatica da Martino Publishing, Mansfield, USA, 2012, p. 241, la traduzione italiana di Mediterranee, come sappiamo, è molto carente).catedralsaintetiennedesens

In realtà troviamo un Pierre du Coingnet in Francois Rabelais (proprio così!), che dice essere distorsione del nome Pierre de Cugnieres il quale in una disputa contro dei prelati venne ‘sconfitto‘ e quindi denigrato. “Coingne“, infatti, come risulta poi evidente nel prosieguo della lettura del Prologo al IV Libro di Pantagruel, oltre al significato di ‘scure‘ indica (di nuovo) l’atto sessuale: ‘coingner‘ è usato nel senso di ‘penetrare’ (nella casta traduzione italiana in mio possesso è tradotto ‘incuneare‘) proprio nelle due Chanson oggetto del racconto di Priapo (verrebbe da dire: da che pulpito…) cantate e suonate dai musicisti francesi e fiamminghi che costituiscono uno dei filoni portanti della nostra Cerca. A dispetto, dunque, del suo nome derisorio e dai risvolti volgari, una ‘Pietra maestra della penetrazione‘ non perde affatto valenza alchemica, piuttosto ne acquista: anzi, il gesto inconsapevole del popolo che introduce del fuoco al suo interno aggiunge ancor più valore a questa immagine in termini di operatività di Laboratorio.

In fondo, una volta assodato che proprio la copula sessuale (“coingnee“) costituisce l’elemento comune dei tre testi uniti in una sorta di quodlibet dall’anonimo autore di ‘La tricotea / A la tricoton /Maistre Pierre‘ possiamo ipotizzare che sotto una veste testuale poco edificante  si possa celare un’allegoria della congiunzione alchemica, che in fondo è l’unione mediata dal fuoco (meglio, da più fuochi) di un maschio, uno zolfo, con una femmina, un mercurio. Aggiungerò però, anche se a qualcuno non sarà sfuggito, che, una volta accettata l’ipotesi che questi testi di chanson  (ed a questo punto anche il Prologo di Rabelais) alludano ad operazioni della cosiddetta Prima Opera, ci troviamo di fronte alla trasmissione di un insegnamento segreto che tutti i testi alchemici contemporanei generalmente saltano o tutt’al più spargono in poche parole distribuite lungo tutto il testo, preferendo parlare dall’inizio della Seconda Opera, descrivendo le Sublimazioni o Aquile come Prima Operazione.

D’altra parte, abbiamo già incontrato altri brani musicali ricchi di allegorie alchemiche dissimulate all’interno di un testo più o meno erotico: mi riferisco a ‘Ce moys de May‘ di Clement Janequin, intimo amico di Rabelais e da questi tenuto in gran considerazione, autore anche di ‘Ung mary se vouloit coucher‘, parafrasata da Rabelais come ‘Grand Thibault se vouloit coucher‘, ovvero la prima delle due chanson presenti nel racconto di Priapo presente nel Prologo al IV Libro.

A voler spingere ancor di più – magari forzando un po’ le cose – la ricerca di collegamento fra chanson (tutte ben degne della ‘Gaia scienza’, come vedremo) allegre e goderecce, troviamo che ne esistono due, dal titolo ‘La, la, Maistre Pierre‘, musicate da vecchie conoscenze, quali Jacob Clemens non Papa, lo stesso di cui parlammo a proposito di ‘Pere eternel‘, e Claudin de Sermisy, ovvero ancora una volta uno dei musicisti presenti nel racconto di Priapo, il quale fu una vera star della chanson parisienne al tempo di Francois I de Valois.

Eccone il testo:

La la, maistre piere
la la, buvons don
en revenant de Nanterre
ie m’assis sur une piere
aupres de moy ung flacon
a ce flacon fit la guerre
en mangeant dung gras gambon
la la, maistre piere
la la, buvons don

Tralasciando (ma neanche troppo) la facile cabala fonetica ‘En revenant de Nanterre’ >  ‘En revenant d’une terre‘ ‘La, la, Maistre Pierre’ > ‘La, la  maistre Pierre‘, che invece di tradurre ‘Tornando da Nanterre, la, la Mastro Pietro‘ leggiamo ‘Rinvenendola da una terra la Pietra Maestra‘, il nostro allegro viandante, compagno di viaggio (?) del nostro Maestro Pietro/della nostra Pietra Maestra, si siede su una pietra (che insistenza!) e mangiando un grasso prosciutto fa la guerra “a ce flacon“, a questa bottiglia.  Curioso, questo è anche uno dei tre testi (ricorre questa tecnica) presenti nella notissima chanson dal titolo di ‘Tourdion‘ scritta (o comunque pubblicata)  da Pierre Attaingnant, l’editore parigino di corte: ‘En mangeant d’un gras jambon a ce flacon faison la guerre‘. Pressoché identico. Attaingnant specifica il vino, Chiaretto, mutuandolo da Guillaume le Heurteur (ancora uno dei compositori/cantori della seconda lista menzionata da priapo) che ha composto la meno celebre ‘Quand je bois du vin Clairet‘ a tre voci.

Fra l’altro, detti musici, secondo il racconto di Priapo, mentre cantano e suonano la chanson di Janequin, fanno ‘la guerra a schidionate di prosciutti e bastioni di bottiglie‘: questo sembrerebbe indicare che il Rabelais conoscesse quantomeno la chanson di Heurteur o comunque avesse ampia conoscenza o possedesse molte delle edizioni di chanson di Pierre Attaingnant. Ma il Tourdion fu pubblicato  nel 1530 e la chanson di Le Heurteur nel 1545, dunque sono i due autori che conoscevano Rabelais ed il suo IV libro, e non (soltanto) viceversa.

Ma ‘La tricotea‘ riserva un’ultima sorpresa.

Nella seconda strofa nomina la Borgogna: forse sembrerà davvero 199px-charles_the_bold_1460un’ulteriore forzatura, ma è lì che stava Antoine Busnois quando ha scritto ‘L’Homme arme‘, che ne contiene l’incipit. Lui, Busnois, era egli stesso un ‘homme arme‘ al servizio del Duca Carlo il Temerario, il quale infranse la propria vita e quella della Borgogna, scrigno di musica e d’alchimia, nell’inseguire, lui stesso Musico, Alchimista e Guerriero insieme, il proprio sogno di ‘grandeur‘ cavalleresca, cingendo al collo il Toson d’Oro, simbolo della fraternità ermetica di cui reggeva il Gran Magistero.

E così, forse, il cerchio si chiude.

E’ tempo di tornare ai nostri ‘Jeux d’enfants‘. Buona cerca a tutti!

Chemyst

Il Maestro e l’Alchimia

Cari Cercatori,

esiste un Maestro in Alchimia? E per essere tale, che requisiti deve avere? Maestro deve coincidere con Adepto? E un Adepto è sempre un Maestro?

Senza dubbio, viene auspicata in Alchimia la presenza di un Maestro che indirizzi e suggerisca – non potendo per Tradizione e Necessità, in alcun modo, alterare il cammino dell’allievo lungo il tortuoso percorso di studi ed esperienze prescritti – il neofita.

Ci sono oggi Maestri disponibili? Purtroppo non bastano Pagine Gialle o Google per trovarne di buoni: al contrario oggi il mezzo telematico è usato per pubblicizzare sedicenti “scuole di Alchimia” nelle quali si pagano quote anche profumate per aver accesso a pratiche “segrete” nelle quali un buon studente acquisirà nozioni che, con un po’ di pazienza, avrebbe comunque trovato, anche in rete. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di tecniche di metallurgia o di spagiria che possono a volte tornare utili anche in Laboratorio, ma che nulla hanno a che fare con l’Arte Sacra. In ogni caso, chi chiede soldi per vendere “segreti” è molto lontano dalle vie della Dama, quando non è soltanto un imbroglione.

Ma ecco, non abbiamo saputo rispondere ancora alla prima delle tante domande, e ne abbiamo posta un’altra… Magari ci torniamo, proviamo con la seconda: che requisiti deve avere un Maestro? La successiva ne suggerisce uno: deve essere un Adepto?

Alt!

Qui la questione si fa delicata: cos’è un Adepto? Ahinoi, le domande si moltiplicano, la confusione  aumenta e ne sappiamo tanto quanto prima! Dunque, un Adepto è colui che ha raggiunto un risultato, ed è a conoscenza quindi di cose eccezionali e segretissime… la Pietra Filosofale? Tradizionalmente è così: è considerato Adepto chi è  in grado di trasmutare un metallo imperfetto in uno perfetto (oro o argento). Oppure ha realizzato l’Elisir di Lunga Vita e può vivere in eterno, o quanto meno passare ‘i limiti ordinari del nostro arco vitale‘, per dirla parafrasando Canseliet. Eppure, come ci ha ben mostrato Lucarelli, lo stesso Fulcanelli, che ha realizzato egli stesso una Pietra Filosofale, utilizzandola al chiuso delle Officine di Sarcelles davanti agli occhi affascinati del giovanissimo Canseliet e di altri testimoni, “torna sui banchi di scuola“, capisce che c’è altro, riparte da capo e poi, scoperta e percorsa la Via Segreta (o Via Universale) sparisce, lasciando al povero Canseliet un complicato manoscritto (Il Mistero delle Cattedrali) e scarne indicazioni operative che il buon Maestro di Savignes ha sviluppato in quasi sessant’anni di Laboratorio, per tentativi ed errori.

Ora, Fulcanelli era certamente un Adepto, che ha realizzato la Pietra e poi ha scoperto la Via Universale: è dunque il maestro perfetto! Ma ha lasciato che Canseliet trovasse da solo la propria strada, senza indicazioni della materia di base (lavorò, il giovane Canseliet, a lungo al pallone con la galena, senza risultati). Visto così, non è stato un bravo maestro… Eppure che risultato! Canseliet ha illuminato con tutta la sua vita il mondo alchemico europeo, pur con i suoi limiti, in primis tecnici (era un letterato ed un artista, mi riconosco in lui quando devo avere a che fare con fiamme vive, bruciatori e crogioli incandescenti), ma anche Filosofici, ed ha generato un’ampia schiera di allievi, diversi dei quali ancora attivi, che lo chiamano “Maestro”… Eccolo! Eppure, i suoi detrattori dicono che non sia mai arrivato ad essere Adepto, anche se nei suoi ultimi scritti qualcosa sembra essere cambiato.

In ogni caso, è morto… E anche Lucarelli, che se ne è andato undici anni fa, che lo conosceva bene, e che si guardava bene dal dire che era stato il suo maestro perché… riteneva che così gli avrebbe fatto un torto! La stima di Lucarelli per Canseliet era immensa, e il fatto che sì, probabilmente anche lui alla fine fosse stato raggiunto dal Dono di Dio, per me lo attestano le parole di Lucarelli stesso nella prefazione all’edizione italiana dei “Due luoghi alchemici“, quando lo definisce “un uomo in pace“.

E Lucarelli, che tanto ha fatto per divulgare Alchimia, che ha esplorato in lungo e in largo l’arte? È stato lui un Maestro? Anche lui, come Canseliet, ha lasciato tanti “allievi“, alcuni dei quali ancora attivi sia in Laboratorio, sia con i libri, e ancora con mezzi di divulgazione più moderni… Però Lucarelli questa storia del maestro non la digeriva tanto: ricordate cosa scriveva in proposito? Con il suo stile a volte ironico, a volte francamente caustico, prende sonoramente per i fondelli chi vorrebbe un maestro vestito di una bianca stola, che rifulge di luce propria e magari levita nell’aria… Io ho fin qui incontrato Fratelli in Cerca, che non hanno mai voluto che fossero chiamati Maestri. Ho incontrato Fratelli che chiamano uno di loro Maestro… E altri che definiscono con il titolo di Maestro Paolo Lucarelli, e lo stesso Canseliet è noto come “il Maestro di Savignies”.

Canseliet

Bene, dal mio punto di vista, ovvero dal punto di vista di chi, appena l’inizio del cammino, non ho motivo alcuno di non credere che Fulcanelli, Canseliet, Lucarelli siano stati Maestri ed Adepti dell’Arte: non so  però se questo si possa definire un parlare di “Scuola”, dato che il Cercatore, nel suo Laboratorio, è solo con le materie e pochi mezzi. Non ho – purtroppo – conosciuto alcuno di loro, se non attraverso i loro scritti. Storicamente, Fulcanelli investirà Canseliet in qualche modo di un ruolo, caricandolo di un enorme fardello ad un’età ancora giovanile: lo chiamò “Fratello di Heliopolis“, indicandogli di firmare con l’acronimo F.C.H. i suoi scritti. Lucarelli conobbe Canseliet già prima del 1975, già maturo nella propria ricerca, e mai firmò i pro e i suoi molti scritti con F.C.H. … Fulcanelli era ben addentro alla società parigina del suo tempo, forse era Massone, come certamente lo fu Lucarelli, ma non sappiamo se Canseliet lo fosse…

Paolo Lucarelli

Dunque questa filiazione non ha omogeneità, ognuno di questi tre grandi alchimisti e molto verosimilmente Adepti ha seguito un proprio, personalissimo percorso. Certo, Lucarelli – raccontano – incontrava molte persone, e tramite i suoi scritti ha svelato e raccontato più di ogni altro nella storia dell’Alchimia. Una buona percentuale di loro ha intrapreso la pratica di Laboratorio, alcuni rinunciarono dopo poco, altri addirittura si tolsero la vita, pochi altri tenacemente proseguirono. Lucarelli, vedendo avvicinarsi la propria fine su questo piano della Manifestazione, si preoccupò persino di indicare un referente, scegliendolo fra coloro che erano più vicini a lui, e scontentando molti altri. Ma questo è umano: gli alchimisti sono uomini ed hanno sentimenti, aspirazioni, difetti umani. La grandezza di Fulcanelli nulla ha a che vedere con le sue visioni apocalittiche, ad esempio: secondo esse, saremmo già dovuti essere morti tutti! Eppure siamo qui: dubitiamo allora di tutto quel che scrisse Fulcanelli? Certo, qualcuno lo fa… dubbi ci sono anche sulla sua identità, sulla quale innumerevoli libri sono stati scritti. Qualcuno dubita della stessa identità di Canseliet (la cabala del suo nome è traducibile come “nasce bene quando c’è il sale“)… È umano è comprensibile dunque anche che nascano distinguo se non dissapori fra i seguaci di Lucarelli: essi, come il loro “Fratello Maggiore” (se non Maestro), sono tutti fragilissimi esemplari di ‘essere umano’.

Ma allora, come si fa? Da quanto scritto risulta allora che non c’è nessun Maestro (Fulcanelli dice che il suo maestro era Basilio Valentino, cioè un personaggio fittizio inventato dalla RosaCroce d’Oro tedesca), ma solo fratelli anziani, alcuni dei quali furono o sono anche adepti? E come – eventualmente – riconoscerli? Lucarelli – raccontato come uomo vulcanico, volitivo, contraddittorio, in bilico fra dolcezza e sarcasmo – riconobbe l’Adepto in Canseliet per la sua serenità, lo abbiamo scritto. E lo stesso Lucarelli ci dice che dove albergano sentimenti di avversione, di prevaricazione, di desiderio di dominio, là non è Alchimia. E’ Alchimia dove – come recita il Rituale Massonico in grado di Apprendista dell’Obbedienza cui appartenne Lucarelli – è   “serenità, senno, benefizio, e giubilo“.

Cercate un Maestro? Non lo troverete (tutt’al più sarà lui a trovare voi, si te fata vocant). Fidatevi però eventualmente di chi è sereno, saggio, generoso e allegro.

Diffidate    di    tutti    gli    altri.

Buen camino.

Chemyst

 

Preghiera…

Cari Compagni, carissimi Fratelli,

soltanto il tempo per poche righe, per un annuncio ed un augurio: questa notte parte, canonicamente, la rinnovata avventura sulle tracce della Dama.

‘We few, we happy few, we band of brothers’, come diceva Henry V prima della impossibile battaglia di Agincourt, siamo pronti e schierati, e, pochi come siamo pochi noi, ma allegri come sappiamo di poter essere nel nostro cuore di giusti, questa notte, con questa Luna dolce, si accenderanno dei Fuochi.

A lei, alla Luna d’aprile, ed alle stelle di questo cielo finalmente terso, ci rivolgiamo con fiducia, dedicando loro il verso del più antico Cantico della nostra bella lingua, scritto da San Francesco:

Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle,

in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle“.

Speriamo anche che, di Lassù, o di dove sono ora, ci sorridano benevoli Paolo Lucarelli, Eugene Canseliet e Fulcanelli.

Che dire di più? Nulla, se non:

Fuoco!

Chemyst

 

Alchimia e Verità

Cari Cercatori,

potrà sembrare bizzarro parlare di Verità in Alchimia, un ambito in cui è d’uopo velare i segreti sotto allegorie e ‘cabale fonetiche‘, sotto allusioni e simboli quando non sotto affermazioni o negazioni di significato equivalentemente ambivalente.

Tuttavia, fra i tanti grandi Adepti, ad uno in particolare era a cuore la Verità: se l’è cucita sullo pseudonimo e l’ha riportata nel titolo di una delle sue  opere più significative. Parliamo di Ireneo Filalete, naturalmente, ed il lavoro cui mi riferisco è ovviamente lo Speculum Veritatis. Tuttavia non è di quest’opera che voglio parlare, ma del suo scritto principale, ossia il ‘Secrets Revealed‘, meglio noto come ‘L’entrata aperta al palazzo chiuso del Re‘.

Paolo Lucarelli ne fece una pregevole traduzione dal Latino tratta dal manoscritto di Modena. La lessi anni fa, e fu uno dei libri più rivelatori che abbia mai letto, seppure, nel corso degli anni, abbia avuto modo di comprendere quanto poco avessi capito di quel libro allora… Oggi, a distanza di molti anni e dopo sette anni di profondissimi studi e ricerche esce, in autopubblicazione da Lulu, ‘Philalethe’s Reveal’d‘, uno scritto monumentale ad opera di Captain Nemo e Fra’ Cercone, di ben 1500 pagine, i quali confrontano tre versioni principali, ovvero il citato Manoscritto di Modena, il Secret’s Reveal’d di Londra del 1668 ed il testo francese del 1672.

Il commento, paragrafo per paragrafo, è in forma di note puntigliose a fronte del testo, ed il tutto è arricchito di tavole ad alta risoluzione, in b/n o a colori a seconda dell’edizione, poste in relazione al testo esaminato. E questo è solo il primo volume. Il secondo (dell’edizione a colori) oppure il secondo ed il terzo (dell’edizione in bianco e nero) contengono una documentatissima  contestualizzazione storica, con biografie di alchimisti e/o scienziati contemporanei e la documentata ipotesi che indica in Sir John Winthrop jr.  l’identità dell’Adeptist Filalete.

Accanto a lui, le vite di George Starkey, Child, Maier, scorrono sotto i nostri occhi affiancate dai lori ritratti d’epoca, da brani della loro corrispondenza, da fonti documentali rare e preziose. Anche il sogno dei Rosacroce viene raccontato, ed è esso stesso un romanzo appassionante.

Da tanta accuratezza non può che nascere una Verità, o almeno qualcosa che vi si approssima con scarto infinitesimale.  In questo, la conclusione sull’identità dell’Adepto dei due Autori appare incontrovertibile, laddove alternative tesi di blasonati ricercatori  americani risultano carenti (quando non omissive) in senso documentale nel sostenere l’ipotesi di identificare con Filalete il pur brillante George Starkey.

La pubblicazione di questa ponderosa ricerca è in lingua inglese: per quanto esso sia un inglese ‘scientifico‘, ovvero lineare e con un fraseggio improntato più alla logica che all’eleganza, può essere di ostacolo  a chi (ancora oggi) non conosce la lingua della bianca Albione. Tuttavia, questa scelta può far sì che questa faticosa ricerca possa essere apprezzata anche oltreoceano o comunque al di fuori dei confini italiani. Di più, essa, praticamente contenendo in gran parte la traduzione in inglese di molte note di Paolo Lucarelli alla sua traduzione dal Latino dell’Introitus, rende fruibile l’opera dell’indimenticato Adepto italiano anche a quell’ampia parte di mondo che non parla la lingua di Dante Alighieri. Forse a lui, ormai dedito al profumo di splendide rose accanto ai grandi Adepti del passato, non importerà molto, né altererà il suo sorriso immutabilmente ironico, ma a noi testimonia l’amore e la riconoscenza di questi Cercatori (con la lettera maiuscola) verso di lui, non così conosciuto negli ambienti anglofoni al pari di quanto lo fosse, non foss’altro che per appartenenza di scuola, in quelli di Francia. E se davvero pensiamo – come in effetti pensiamo – che quanto coraggiosamente ci ha svelato e rivelato l’Adepto torinese sia, parafasando il Trismegisto, ‘vero, verissimo e certo‘, ecco che Captain Nemo e Fra’ Cercone hanno effettuato un’azione di diffusione della Verità nel confuso scenario che oggi viene compreso nel termine ‘Alchimia‘.

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A proposito di Verità: ricordo bene quando, nelle lunghe chiacchierate telematiche con Captain Nemo, mi disse che era necessario incontrarsi per ‘guardarsi negli occhi‘. Ora capisco meglio di allora quanto importante sia questo semplice gesto per riconoscere immediatamente un Fratello di Cerca, capisco anche perché Canseliet lo chiami  Amante della Verità (L’Alchimia spiegata sui suoi testi classici, Mediterranee, 1985, p. 11). Più avanti (ibidem, p. 130), egli afferma che ‘La Verità, similmente, è un polo attrattivo che, in un bagno di costante interesse, intrattiene e guida gli sforzi del filosofo, che da quel momento non ne è mai più stanco‘.  Come dire che, in mancanza della Verità, non vi è vero filosofo. E ancora (ibidem, p. 136, il Filosofo di Savignies ci rassicura che ‘… aggredita, la Verità si trovi ad essere persino rinforzata…‘.

Perdonate la digressione, ma, mi si creda o meno, essa non è off topic.

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A proposito di Verità: nelle Recreations Hermetiques proprio Captain Nemo mi consultò su due immagini, di cui parlammo qui: nel testo, cui rimandiamo per completezza di studio, la ‘Veritez‘ è contrapposta alla ‘Ingenuitez‘. La differenza fra l’una e l’altra  sta in un particolare del disegno musicale, un’apparente svista che modifica però nella sostanza la sua realizzazione sonora: mancando la giusta posizione, la soluzione è falsa, non vera. Eppure Ingenuo, una volta, significava ‘sincero‘…

Decisamente Ingenuo, mi trovo così a salutarvi, dopo questo post un po’ schizoide, un po’ recensione, un po’ racconto, un po’ riflessione, in ogni caso non unitario anzi, piuttosto sconclusionato. Ma vi saluto sempre con affetto e sincerità.

Chemyst